Cattura della CO2, soluzione o foglia di fico?

Ecco la valutazione del direttore di Greenpeace Italia. Il cosiddetto ‘Carbon Capture and Storage’ divide esperti, scienziati e ambientalisti. Tra chi la ritiene uno strumento imprescindibile per far tornare l’anidride carbonica nell’atmosfera a livelli preindustriali e chi pensa che investire soldi su tali tecniche non farà altro che ritardare la transizione verso le energie rinnovabili a emissioni zero

Cattura della CO2, soluzione o foglia di fico?
Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia

Segue l’opinione di Giuseppe Onufrio sulla cattura della CO2

Riassorbire l’anidride carbonica per salvare il clima? Sequestrare la CO2 per raggiungere gli obiettivi di Parigi, contenendo la crescita della temperatura media della Terra?

La nuova tecnologia appare una chimera. E, a parere di Greenpeace, anche un po’ pericolosa. Tagliare le emissioni di carbonio, infatti, è e deve restare la strada maestra, spingendo su una rapida transizione energetica. Fare affidamento su questa tecnologia, al contrario, rischia di posticipare la riduzione delle emissioni, con la nozione che sarebbe possibile risolvere il problema in un secondo momento.

Nonostante i miliardi investiti, i progetti di cattura e stoccaggio della CO2 (Carbon Capture and Storage, CCS) messi in piedi finora hanno raggiunto risultati insignificanti e registrato diversi fallimenti. Tra questi ultimi, il progetto di Petra Nova in Texas: entrato in attività nel 2017, è rimasto fermo per ben 367 giorni, oltre un quarto dei quali a causa di problemi all’impianto di cattura destinato al camino della centrale a carbone, la cui CO2 avrebbe dovuto “sequestrare”. L’impianto, appena chiuso, viene tra l’altro citato dal recente rapporto IEA come quello col migliore costo: 65 dollari a tonnellata di CO2. Una cifra del 30% più bassa rispetto all’unico altro caso di applicazione di questa tecnologia per una centrale a carbone (in Canada).

Oggi, la gran parte degli impianti CCS in esercizio serve ad aumentare l’estrazione di petrolio (Ehnanced Oil Recovery, EOR). Non è un caso: gli elevati costi della tecnologia sono in parte “ripagati” dalla possibilità di produrre più petrolio, con l’evidente conseguenza di emettere una maggiore quantità di CO2. Una valutazione ambientale corretta di un progetto CCS, inoltre, richiederebbe l’analisi di tutte le emissioni inquinanti dei processi associati e dell’energia spesa per comprimere, trasportare e pompare sottoterra l’anidride carbonica. Secondo le stime correnti, tale filiera comporta il 15-25% di energia in più per unità di energia decarbonizzata tramite cattura e stoccaggio.

Per la sicurezza dello stoccaggio a lungo termine, è necessaria una attenta valutazione dei siti per limitare il rischio di “perdite”. Una diffusione su larga scala della tecnologia, infatti, coinvolgerebbe in prospettiva anche siti di minore qualità e maggiore rischio per la tenuta. Ad esempio, un progetto in Algeria (Salah) ha dovuto chiudere i battenti proprio perché una fratturazione della roccia di copertura minacciava fuoriuscite. In sostanza, il CCS è una tecnologia molto “sito-specifica” che richiede una caratterizzazione attenta e meticolosa: una sua applicazione generalizzata potrebbe portare a un aumento dei rischi.

Nel settore della produzione elettrica esistono solo due impianti operativi di taglia industriale che, nel complesso, catturano 2,4 milioni di tonnellate di CO2. Peraltro, proprio in questo settore, le opzioni per decarbonizzare già esistono, e sono sempre più competitive. Così come stanno scendendo i costi per le batterie industriali destinate a stoccare elettricità rinnovabile. Non è un caso, quindi, che negli Stati Uniti, nonostante il basso costo dello shale gas, aziende private stiano già costruendo (in California e Florida) sistemi solari associati a batterie industriali al posto di centrali a gas.

Se questa è la situazione in un mercato liberalizzato come quello statunitense, per quale ragione qui in Italia qualcuno dovrebbe puntare su impianti a gas associati a CCS? Come è noto, infatti, Eni ha provato a inserire nel Recovery Fund – finora senza successo – il progetto che vorrebbe realizzare a Ravenna, con l’obiettivo di stoccare una quantità di anidride carbonica pari a solo lo 0,6% circa delle emissioni complessive annue dichiarate dalla stessa azienda. È questo il “convitato di pietra” del dibattito italiano attorno alla cattura della CO2. Destinare risorse pubbliche al CCS significherebbe capovolgere il principio “chi inquina paga” e scaricare sui cittadini una “tassa carbonio”, molto alta, per una tecnologia che non è in alcun modo risolutiva.

Le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, al contrario, andrebbero investite in tecnologie che possano davvero accelerare la decarbonizzazione. E sulle quali dovrebbe puntare la stessa Eni, per una reale transizione energetica. Parliamo ad esempio degli elettrolizzatori, degli accumuli, o delle rinnovabili emergenti come l’eolico galleggiante e l’agrivoltaico. E, in prospettiva, della produzione di idrogeno verde per quelle applicazioni nelle quali è più difficile eliminare le emissioni di CO2.

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