Il paradosso dei mutui a tasso variabile

L’allungamento dei mutui, chiesto dal ministro dell’Economia e accolto dall’Abi, non è un’operazione gratis per i clienti. La quota capitale resta la stessa, ma la quota interessi complessivamente versata aumenta. La questione centrale è tuttavia un’altra. In una (lunga) fase caratterizzata da tassi di interesse bassissimi, come è possibile che una quota rilevante di mutui immobiliari siano stati comunque a tasso variabile? Una scelta insensata, profondamente illogica

Il paradosso dei mutui a tasso variabile

Nei giorni scorsi ha suscitato un certo clamore sui media quanto dichiarato dal presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, in merito ai mutui a tasso variabile: è stata giustamente giudicata positivamente la disponibilità delle banche ad allungare la durata dei mutui. Necessità, per chi è in difficoltà con il pagamento delle rate periodiche, evidenziata anche dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

Sebbene l’apertura dell’Abi non fosse scontata, l’allungamento del mutuo non è un’operazione gratis per i clienti. Tutt’altro. La quota capitale (i soldi effettivamente prestati dall’istituto di credito) resta la stessa, ma la quota interessi complessivamente versata aumenta. Certo, la rata mensile diminuisce ma è un effetto ottico: alla fine del mutuo gli interessi passivi versati aumentano allungando il periodo. Quindi non proprio un vero regalo da parte dei banchieri.

Ma la questione centrale è un’altra. In una (lunga) fase caratterizzata da tassi di interesse bassissimi, come è possibile che una quota rilevante di mutui immobiliari siano stati comunque a tasso variabile? Una scelta insensata, profondamente illogica. Per comprenderla, occorre indagare su due aspetti.

Il primo concerne il difficile rapporto tra gli italiani e le conoscenze basiche della finanza. La cosiddetta educazione finanziaria. Un semplice esempio aiuta a capire di cosa si tratta. “Cinque fratelli ricevono oggi in regalo mille euro. Immagina che debbano attendere un anno per poter disporre della loro quota e che il tasso di inflazione annuo sia pari all’1 per cento. Tra un anno, ciascuno con la propria somma, potrà comprare più, meno o le medesime cose che potrebbe comprare oggi?”. Questa è la domanda che valuta la conoscenza del tema dell’inflazione da parte dei cittadini nelle indagini internazionali sull’alfabetizzazione finanziaria degli adulti promosse dall’Ocse e condotte nel nostro paese dalla Banca d’Italia. Secondo gli ultimi dati disponibili (2020), meno della metà dei cittadini italiani ha risposto correttamente alla domanda, contro una media dei paesi Ocse del 65 per cento di risposte corrette. Basta questo dato per immaginare con quali competenze una parte di aspiranti proprietari immobiliari va a bussare alle porte delle banche.

E qui entra in gioco il secondo fattore. Come è possibile che gli istituti di credito abbiano dissuaso tutti i clienti dallo scegliere il tasso fisso quando la politica monetaria della Bce era iper-espansiva? Cosa mai avranno prospettato gli impavidi bancari agli sprovveduti clienti? Forse che i tassi (variabili) sarebbero andati sottozero e quindi avrebbero potuto aspirare allo scenario impossibile di essere pagati dalle banche per aver contratto un mutuo? Va bene l’ottimismo, ma in questo caso non c’entra nulla. Ciò che ancora manca in Italia è quel concetto di trasparenza che le banche sembrano proprio non riuscire ad applicare fino in fondo. In questa ottica, quello delle banche, ovvero l’allungamento dei contratti per i mutuatari in difficoltà, piuttosto che un regalo, sembra un piccolo gesto di riparazione, sebbene sia pagato dai clienti stessi.

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