Spese militari, il 2% del Pil è una misura insensata che ci farà diventare più ignoranti

Spese militari, il 2% del Pil è una misura insensata

In piena crisi ucraina, il 16 marzo scorso, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad allinearsi alle indicazioni della Nato, aumentando le spese militari. Nel giro dei prossimi sei anni, arriveremo a stanziare il 2% del nostro Pil, contro l’attuale 1,5%.

Nel 2014, la spesa militare italiana corrispondeva solo all’1,1% del Pil. E ha continuato a crescere persino durante la pandemia, passando dai 21 miliardi del 2019 ai 25 del 2021. Nell’anno passato, gli Stati europei membri della Nato hanno destinato a eserciti e tecnologie belliche 230 miliardi di euro: un totale quattro volte superiore rispetto a quello della Russia. Se si prendono in considerazione anche Stati Uniti, Canada e Turchia, la Nato, complessivamente, ha investito in difesa più di mille miliardi di dollari, la metà di quanto speso complessivamente nel resto del mondo.

Nel 2021, dei 30 membri aderenti all’organizzazione, la Nato rileva che soltanto otto hanno speso più del 2% del loro Pil nella difesa: Stati Uniti (3,57%), Grecia (3,59%), Polonia (2,34%), Regno Unito (2,25%), Croazia (2,16%), Estonia (2,16%), Lettonia (2,16%) e Lituania (2,03%). Quello che Trump amava chiamare il “2% club”. Con la decisione del Parlamento, l’Italia si è dunque allineata alle indicazioni della Nato, che, tuttavia, non sono vincolanti.

Tale soglia del 2% viene definita dall’Alleanza come un indicatore della volontà politica e dell’impegno di ciascun membro a contribuire alla credibilità dell’alleanza. Da non confondere con la quota associativa che i membri pagano per fare parte della Nato, che equivale allo 0,3% della spesa pubblica dei singoli Paesi. Sotto il grande ombrello dell’Alleanza, l’Italia non è stato dunque l’unico membro a non entrare finora nel club del 2%: oltre due terzi dei Paesi firmatari sono al di sotto della soglia.

Dopo un vertice informale dei leader europei a Versailles, a inizio marzo 2022, però, molti governi si sono impegnati ad aumentare i propri investimenti nella difesa. In Germania, dove la spesa militare nel 2021 corrispondeva all’1,49% del Pil, il cancelliere Olaf Scholz ha proposto di creare un “fondo speciale” di 100 miliardi di euro. Il governo spagnolo ha deciso a sua volta di allinearsi all’obiettivo della Nato. Nonostante finora fosse tra i paesi europei con la più bassa percentuale del Pil destinata agli armamenti: l’1,03%. E, a Parigi, il presidente Emmanuel Macron ha promesso di aumentare ulteriormente la spesa militare, già equivalente all’1,93% del Pil francese nel 2021.

I danesi con un referendum decideranno se allinearsi alle politiche difensive dell’Unione europea. E nei prossimi due anni assisteranno a un aumento della loro spesa militare di 800 milioni. L’obiettivo della premier Mette Frederiksen è di raggiungere la soglia del 2% entro il 2033. Una decisione che, secondo il Guardian, porterà le casse dello Stato scandinavo a registrare persino un deficit, dal 2025 in avanti.

Un processo, l’aumento della spesa militare al 2%, che tuttavia appare illogico. Quando è stata stabilita questa quota tutti i Paesi, a parte Stati Uniti, Regno Unito e Grecia erano sotto la soglia. Peraltro si tratta di un parametro insensato per essere usato come preventivo: in primo luogo perché il Pil guarda anche alla ricchezza prodotta dai privati, ma soprattutto perché non lo puoi prevedere. Non sappiamo quale sarà il Pil del 2022, figuriamoci quello del 2023. È solo un parametro usato in maniera fittizia e strumentale per spingere verso un aumento delle spese militari.

E mentre il parlamento impegna il governo ad aumentare fino al 2% del Pil la spesa militare, nel Documento di economia e finanza (Def) varato a inizio aprile spariscono gli investimenti promessi. Le spese di emergenza dovute al Covid sono state solo una parentesi e non investimenti strategici per rafforzare la scuola e l’istruzione.

Nel 2025 la spesa per queste ultime scenderà al 3,5% del Pil nel nostro paese. Un calo drastico rispetto al 4% del 2020 e meno anche del 3,6% del Pil del 2015. Senza contare che negli altri Paesi europei nel 2019 la media era il 4,7% del Pil dell’Unione. Con alcuni Paesi (Svezia, Danimarca, Belgio) che sforavano il 6%. Per avere un’idea: la differenza tra 3,5 e 4,7% in Italia sono circa 20 miliardi.

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