Il lato oscuro del fast fashion: l’Africa soffocata dai nostri abiti usati

Ogni settimana milioni di vestiti di seconda mano arrivano in Ghana e in altri Paesi africani. Ma oltre la metà è spazzatura: un fiume di scarti tessili europei che inquina, devasta ecosistemi e uccide la fauna

Il lato oscuro del fast fashion: l’Africa soffocata dai nostri abiti usati

Sulle coste del Ghana, i pescatori gettano le reti e trovano… vestiti. Sempre più spesso, al posto del pesce, riaffiorano stracci dismessi provenienti dall’Europa. Un fenomeno drammatico documentato dal nuovo report di Greenpeace Africa: il mare è diventato la discarica sommersa della moda occidentale.

Dall’Europa all’Africa: la rotta dei rifiuti tessili

Nel solo Ghana arrivano ogni settimana circa 15 milioni di capi usati, ma secondo Greenpeace oltre la metà è inutilizzabile. Scarti senza valore, spediti con l’etichetta della solidarietà, ma che finiscono in discariche a cielo aperto, sulle spiagge e nei fiumi. E da lì, dritti in mare.

Tartarughe soffocate e spiagge invase

Ad Accra, persino una zona umida protetta dalla Convenzione di Ramsar è invasa dagli abiti abbandonati. Tre specie di tartarughe marine rischiano la vita ingerendo fibre tessili, mentre spiagge e canali di scolo vengono occupati dai rifiuti. È il paradosso ecologico del fast fashion.

Vestiti tossici, ambiente avvelenato

I vestiti del fast fashion sono fatti per costare poco e durare poco. Contengono fibre plastiche, derivati fossili e sostanze chimiche tossiche. Quando finiscono in discarica o vengono bruciati, rilasciano microplastiche e inquinanti nell’aria, nei suoli e nell’acqua, avvelenando ecosistemi e fauna.

900 milioni di capi usati nel 2022: metà erano rifiuti

Secondo il dossier Draped in Injustice, nel 2022 l’Africa ha ricevuto quasi un miliardo di capi usati dall’Unione Europea. Il 46% del totale globale. Ma molti di questi erano inutilizzabili già alla partenza: brandelli, capi lisi, spazzatura travestita da donazione.

Discariche bruciate, aria irrespirabile

Per smaltire i cumuli tessili, le popolazioni locali spesso non trovano alternativa: li bruciano. Il risultato? Fumi tossici e un nuovo livello di inquinamento. La filiera dell’usa-e-getta si conclude con un disastro ambientale e sanitario che colpisce le fasce più vulnerabili del pianeta.

Carità tossica: chi paga davvero il prezzo della moda?

Gli abiti dismessi finiscono nei cassonetti con buone intenzioni. Ma la metà viene venduta a peso a intermediari che li rivendono o li scaricano in Africa. È un meccanismo che maschera lo smaltimento sotto forma di beneficenza. Chi paga? L’ambiente africano. E chi ci vive.

Serve una svolta: trattato globale sulla plastica e moda responsabile

Greenpeace chiede un trattato vincolante per ridurre la produzione di tessuti sintetici. Le aziende della moda devono essere responsabili anche del fine vita dei loro prodotti. Riciclo, riuso, fibre naturali: serve una rivoluzione che parta anche dai consumatori.

Comprare meno, comprare meglio

Ogni acquisto ha un impatto. La moda veloce costa poco a noi, ma carissima all’ambiente e a chi la subisce. Ridurre gli acquisti inutili, evitare i prodotti di bassa qualità e sostenere marchi trasparenti può spezzare questa catena di ingiustizia travestita da tendenza.

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