Blinken e il paradosso della lotta all’Isis. In realtà nel mirino c’è l’Iran

Il segretario di Stato Usa incontra la coalizione, mentre Biden bombarda Iraq e Siria. Ma il soggetto politico meno credibile è la Turchia filo-Daesh

Blinken e il paradosso della lotta all’Isis. Nel mirino c’è l’Iran
Tony Blinken

La riunione di Roma anti-Isis (Daesh) è stata il trionfo del paradosso: c’erano ministri di Paesi che in parte hanno combattuto il Califfato e che allo stesso tempo prima lo avevano favorito o ne erano stati complici. In Iraq l’ascesa dell’Isis nel 2014 puntava a far fuori il governo sciita e la presenza iraniana. In Siria l’obiettivo era abbattere Bashar al Assad.

Quando hanno capito che usare i jihadisti era un fallimento e si moltiplicavano gli attentati in Europa ispirati dal Califfato, gli occidentali si sono messi a combattere Daesh con i loro complici mediorientali.

Tra questi Turchia e Israele, il cui ministro degli esteri Lapid ha incontrato a Roma il segretario di Stato Usa Blinken con un obiettivo principale: l’Iran e il contrastato negoziato sul nucleare in corso a Vienna.

E per non farsi mancare nulla gli americani, alla vigilia del vertice di Roma, si sono esibiti nella specialità che contraddistingue Washington e Tel Aviv: la guerra a Teheran, definita ‘sotterranea’ perché se ne parla assai poco.

Nella notte tra domenica e lunedì gli Usa hanno compiuto un attacco aereo contro le milizie filoiraniane al confine tra Iraq e Siria. È il secondo attacco da quando Biden è alla Casa bianca (il primo avvenne il 25 febbraio).

In questo clima per nulla festaiolo, Di Maio e Blinken sembravano due amiconi. “Siamo molti grati per la leadership dell’Italia perché queste sfide sono al centro dell’agenda globale”, ha detto il segretario di Stato. Ma quale leadership se sono stati proprio gli Stati Uniti a far esplodere la Libia insieme a francesi e britannici lasciando poi che Erdogan occupasse la Tripolitania?

L’obiettivo Iran, collocato nell’ottica della lotta all’Isis, è emblematico del fraintendimento che ha contraddistinto la lotta al Califfato. L’Isis è nato da una costola di Al Qaeda comparsa in Iraq quando gli Usa hanno abbattuto Saddam nel 2003. Con l’esercito iracheno sbandato dopo la caduta di Mosul, all’ascesa dell’Isis si è opposto in un primo momento solo l’Iran.

La penetrazione dell’Isis in Siria è stata favorita dall’ondata di migliaia di jihadisti fatti affluire dalla Turchia con il consenso degli Usa e dei loro alleati occidentali, oltre che delle monarchie del Golfo interessate a far cadere Assad, fedele alleato di Teheran.

Si capisce bene che l’avanzata dell’Isis, che a un certo punto controllava un territorio con 8-10 milioni di persone, è stata appoggiata per far collassare la Mezzaluna sciita sull’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut (Hezbollah). E anche la successiva guerra della coalizione anti-Daesh è stata fortemente condizionata da questo obiettivo.

Ma gli strateghi occidentali e arabi non avevano fatto i conti con la Russia che nel settembre 2015 è scesa in campo a fianco di Damasco, segnando il suo ritorno in forze nel Mediterraneo, proseguito poi con i mercenari russi nella Cirenaica di Khalifa Haftar.

A quel punto bisognava per forza combattere l’Isis: agli Usa e all’Occidente non restava che rafforzare la presenza militare a cavallo tra Siria e Iraq e a Israele il controllo sul Golan siriano, la cui annessione è stata riconosciuta da Trump.

Tra gli attori meno credibili della coalizione contro Daesh c’è la Turchia. Erdogan ha fatto finta di combattere l’Isis lasciando che i jihadisti a Kobane massacrassero i curdi siriani alleati degli Usa e poi usando i suoi militari e le milizie estremiste per occupare parte del territorio curdo siriano non più protetto da Trump. Gli Usa hanno abbandonato il loro maggiore alleato alla mercé di quella Turchia che aveva nell’Isis i propri agenti a dirigere le operazioni militari.

Il vero capo dei jihadisti oggi è proprio Erdogan che li manovra in Siria a Idlib e nei cantoni curdi, che li ha usati in Libia per contrastare Haftar e poi nel Nagorno-Karabakh conteso tra Azerbaijan e Armenia. Ora vuole restare in Afghanistan forse per iniziare con i jihadisti un’insorgenza degli uiguri, la popolazione musulmana dello Xinjang cinese.

Niente di più utile che lottare contro l’Isis e i suoi affiliati per aumentare la presenza militare in Iraq, a cui subito l’Italia ha aderito in nome della stabilità di Baghdad. Ma anche in quel Sahel dove, dal Ciad al Mali, stanno cedendo tutte le certezze di Franc-Afrique: qui l’Italia sta aprendo una base militare in Niger e si prepara a inviare elicotteri d’attacco in Mali.

Così dal Medio Oriente all’Africa continua una destabilizzazione infinita, un giorno travestita da lotta al Daesh, un altro dalla necessità di fermare le ondate migratorie. Il Califfato, vero o virtuale che sia, non deve finire mai: lo esige un dichiarato stato cronico d’emergenza.

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