Il capitalismo italiano e lo choc di Maastricht: una storia già scritta?

Secondo Pierfranco Pellizzetti, le condizioni disastrose del capitalismo italiano non si curano nella sfera monetaria, ma invertendo la subalternità al modello della globalizzazione finanziarizzata

Il capitalismo italiano e lo choc di Maastricht: una storia già scritta?

In un saggio pubblicato sul numero 5/2021 di MicroMega, Lucio Baccaro (direttore dell’Istituto per la ricerca sociale Max Planck di Colonia) e Massimo d’Antoni sostengono che la scelta dell’Italia di entrare nell’euro non fu oggetto di grandi discussioni, ma venne dai più (anche a sinistra) considerata un passo necessario per far maturare il capitalismo italiano affetto da tare antiche. Eppure, secondo i due autori, già con i parametri di allora si poteva prevedere che la perdita della leva monetaria avrebbe necessariamente condotto a politiche di austerità.

C’era dunque bisogno del nuovo choc Maastricht? Stando al duo Baccaro-D’Antoni si stava meglio prima. “Cosa sarebbe successo se il vincolo non ci fosse stato, ovvero se l’Italia non avesse deciso di fissare irrevocabilmente il suo tasso di cambio alla fine del 1996? – scrivono -. Il miglior controfattuale disponibile è di nuovo rappresentato dall’Italia nei quattro anni tra il 1992 e il 1996. In questi anni l’Italia guadagnò competitività grazie a una forte svalutazione del cambio nominale accompagnata da una riduzione dell’inflazione. Inoltre la produttività del lavoro crebbe molto più rapidamente che negli anni successivi.”

Le cose sono davvero in questi termini? Secondo Clericetti, “il modello di sviluppo che aveva fatto crescere la capacità competitiva italiana era andato da tempo in tilt; l’impresa partecipata dallo Stato era già implosa dalla metà degli anni Ottanta; la nostra potenza esportativa giocata sulle merceologie ‘3 F’ a bassa soglia di entrata tecnologica (food, fashion, furniture) declinava sotto l’attacco da parte dei Paesi di nuova industrializzazione; evaporava il mito della Terza Italia dei cluster di micro-impresa e dell’innovazione incrementale on the job, mentre incombeva il paradigma tecno-economico (californiano) dell’innovazione nei milieu in cui impresa e ricerca scientifica si incontrano sistematicamente per ibridarsi reciprocamente. Le svalutazioni competitive erano ormai soluzioni al ribasso, pannicelli per occultare l’inesorabile declino. Come ne era palese dimostrazione la serrata degli investimenti nell’industria privata, in avvio già dagli anni Settanta.”

Il punto è che pertanto le condizioni disastrose del capitalismo italiano – secondo Clericetti - “non si curano nella sfera monetaria quanto, piuttosto, invertendo la subalternità al modello finanziarizzato anglo-americano, recuperando lo spirito egualitario di antichi compromessi keynesiani attraverso il governo democratico dell’economia. Per cui il topic è quello di ribaltare gli attuali rapporti di forza egemoni. Come? Intanto cominciamo a parlarne. Lo scrivevo già nel lontano 1996. Probabilmente senza riuscire a farmi capire.”

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