La supercar Silk Faw chiama 200 ricercatori italiani. Ma non sarà una Ferrari cinese

Per progettare le ipercar elettriche la società nata tra Cina e Stati Uniti ha scelto la ‘Motor Valley’ dell’Emilia Romagna. E le università italiane. Il dibattito sui rischi connessi a centri di ricerca, accademie e think tank finanziati dalla Cina, in Europa è centrale. Il nostro paese, o meglio l’esecutivo, invece fin qui non si è mosso.

La supercar Silk Faw chiama 200 ricercatori italiani. Ma non sarà una Ferra

Se la considerate una Ferrari cinese, siete fuori strada. La supercar elettrica di Silk Faw - la joint venture con radici tra Cina e Stati Uniti che ha investito 1,3 miliardi di euro per aprire uno stabilimento nella Motor Valley - nascerà sfruttando le idee di 200 ricercatori italiani. I primi 30 sono già al lavoro per progettare batterie e motori elettrici di nuova generazione. Ma anche il software capace di cambiare per sempre il rapporto tra l’automobile e chi la guida.

L’elemento che si vuole qui evidenziare è la nuova strategia di Pechino, che si è trovata la strada sbarrata dal governo Draghi. Prima la gara per il 5G del Viminale che di fatto ha escluso quelle società che utilizzavano tecnologia cinese, Huawei e Zte, spianando la strada a Tim. E l'apertura di un dossier sulla vendita di una società di droni militari (Alpi Aviation) da parte di due aziende legate, si è scoperto poi, al governo cinese.

Le aziende asiatiche hanno così individuato una via alternativa: intensificare scambi e partnership con le università dello Stivale, incrementando progetti e centri di ricerca in cambio di tecnologie e know how. Il tutto senza alcuna regolamentazione, come conferma il fatto che neppure il ministero per l’Università e la Ricerca possiede una mappa di tali ‘accordi’.

Tra questi, ad esempio, Huawei è il principale sponsor di una collaborazione sul 6G tra l’University of Electronic Science and Technology of China e il Politecnico di Milano. E, proprio grazie agli accordi con gli atenei italiani, è già dentro il progetto del cloud europeo su cui Bruxelles aveva alzato le barricate.

Il dibattito sui rischi connessi a centri di ricerca, accademie e think tank finanziati dalla Cina, in Europa è centrale. Il nostro paese, o meglio l’esecutivo, invece fin qui non si è mosso. Eppure la questione esiste.

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