Il 6 agosto il gruppo palestinese Hamas ha annunciato che Yahya Sinwar, accusato dalle autorità israeliane di essere una delle menti dell’attacco del 7 ottobre, è stato nominato nuovo leader politico del movimento islamista palestinese.
La sua nomina a nuovo leader di Hamas arriva solo una settimana dopo la morte del suo predecessore, Ismail Haniyeh, a Teheran. L’Iran e Hamas hanno accusato Israele di avere organizzato l’assassinio. Israele si è finora rifiutato di commentare.
Con la nomina di Sinwar a capo del movimento è stato inviato un messaggio forte a Israele, dieci mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza. Se Israele pensava che dopo l’eliminazione del capo di Hamas, l’organizzazione e la storia avrebbero preso un’altra piega, meno aggressiva, ora il governo israeliano sa che non è così.
L’assassinio di Haniyeh, che credeva nella conclusione di un accordo di cessate il fuoco e di un accordo di scambio di prigionieri (attraverso la mediazione con Israele), ha indotto infatti Hamas a scegliere un leader che continuerà a lottare contro il nemico.
Ma cosa ci avrebbe guadagnato Netanyahu e il suo esercito a favorire l’insediamento di un leader di Hamas altrettanto duro rispetto al precedente? Nulla, a meno che l’obiettivo (come alcuni maligni evidenziano, ricordando i problemi processuali per corruzione che coinvolgono il premier israeliano) non sia quello di prolungare, anziché stoppare, il conflitto.
Un conflitto che dallo scorso 7 ottobre ha causato la morte di 1.198 persone tra gli israeliani, la maggior parte delle quali civili. Delle 251 persone rapite in quel fatidico giorno, 111 sono ancora detenute a Gaza, 39 delle quali sono morte, secondo l’esercito. In risposta, Israele ha lanciato un’offensiva che finora ha causato oltre 39.650 vittime, secondo i dati del ministero della sanità del governo di Gaza guidato da Hamas.