Contro il lavoro povero non basta il salario minimo

Fissare un livello di salario minimo non esaurisce la questione dei lavoratori poveri. Perché il fenomeno non riguarda solo i dipendenti, ma una fascia molto più ampia di persone

Una delle grandi sfide nel prossimo futuro sarà quella di contrastare la crescita del “lavoro povero”, come sottolineato di recente dal ministro Orlando.

Il fenomeno è ancora poco indagato nel nostro paese ed è spesso erroneamente assimilato alla questione dei bassi salari. Una prassi recente, dovuta alla presentazione di due disegni di legge del 2019 relativi all’introduzione di un salario minimo in Italia, individua come livello di salario del lavoratore povero quello dei 9 euro orari e l’alveo di riferimento in quello corrispondente al numero di lavoratori sotto tale soglia. Ma la legittima battaglia per aumentare il benessere dei lavoratori dipendenti non deve essere confusa con gli obiettivi più ampi del contrasto alla crescita dei working poor.

L’obiettivo del salario minimo è quello di migliorare le condizioni di lavoro, “assicurando ai lavoratori l’accesso alla tutela fornita da contratti collettivi, in modo tale da consentire una vita dignitosa ovunque essi lavorino”, come recita la direttiva Ue.

Più di un lavoratore su sei in Europa è qualificabile come low wage earner (salario inferiore ai due terzi del salario mediano) e anche in Italia il fenomeno inizia ad assumere dimensioni preoccupanti. Tuttavia, mentre la discussione sul salario minimo si è concentrata sulla quantificazione del livello minimo e sui suoi effetti attesi, il concetto del lavoro povero è più ampio e tende a includere tutte le tipologie di lavoratori che, su redditi calcolati annualmente, non riescono a uscire dalla soglia della povertà relativa. Una parte crescente dei lavoratori europei, attualmente il 10 per cento, è al di sotto di tale soglia, anche per scelte passate di liberalizzazione del mercato del lavoro promosse dalla stessa Ue.

La definizione di working poor abbraccia quindi tutti i lavoratori, compresi gli autonomi, i parasubordinati, gli atipici e i non-standard workers. Ben venga, dunque, una disciplina sui livelli minimi salariali, ma il contrasto al precariato e all’insicurezza lavorativa deve diventare il nuovo obiettivo di lungo periodo. La pandemia ha esacerbato le differenze fra insider (protetti) e outsider del mercato del lavoro moltiplicando le spese sociali a sostegno della seconda categoria che tuttora risulta la più colpita in termini occupazionali e di scarsa protezione sociale. Bisogna anche ricordare che ogni spesa pubblica in questa direzione rappresenta un investimento, perché in grado di stimolare la domanda interna che ha inciso per 7,8 degli 8,9 punti persi di Pil nel 2020: la ripresa non deve essere una jobless recovery, ma neanche una bad job recovery, come è successo dopo l’ultima crisi economica del 2008-2011.

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