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Per la prima volta, l’Italia si prepara a raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil in spesa per la difesa, un traguardo fissato dalla Nato già nel 2014. Ma non sarà necessario un aumento netto del bilancio: il governo Meloni punta a ridefinire cosa si intende oggi per “spesa militare”.
Una strategia di riclassificazione
Come chiarito da Giorgia Meloni e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, l’Italia rientrerà nei parametri Nato senza sacrificare il welfare. La chiave? Includere nel perimetro della difesa spese già esistenti, legate a sicurezza informatica, infrastrutture critiche e altri ambiti strategici.
La difesa oggi va ben oltre l’esercito
Nel mondo contemporaneo, la sicurezza nazionale non riguarda solo le Forze Armate. Cyberdifesa, controllo delle frontiere, disinformazione, resilienza energetica: tutte queste voci sono già finanziate, ma non sempre conteggiate come “difesa”.
Guardia Costiera e cybersicurezza: esempi concreti
Le operazioni marittime della Guardia Costiera, la protezione dei sistemi informatici statali o gli interventi per la sicurezza delle reti sono spese difensive a tutti gli effetti. Non si tratta di manipolare i numeri, ma di aggiornarli al contesto attuale.
Una soglia politica, non un dogma tecnico
Il 2% del Pil non è una formula matematica, ma un impegno politico condiviso tra alleati. Nel 2023, l’Italia era ferma all’1,6%. Con la nuova metodologia, potrà colmare il divario senza tagli eccessivi né nuove imposte.
Una mossa già applicata da altri Paesi
Francia, Germania e Paesi Bassi già adottano criteri più ampi per calcolare la spesa militare. L’Italia ha ora deciso che seguirà questa linea.
Più trasparenza nei conti
Includere spese finora “invisibili”, peraltro, aiuta anche il dibattito interno: difendere la sicurezza non significa militarizzare, ma garantire libertà, stabilità e resilienza in un mondo minacciato da guerre ibride e attacchi informatici. Questo il messaggio a cui sembra puntare l’esecutivo italiano.