
Durante il suo intervento alla Camera il 14 maggio, la premier Giorgia Meloni ha sottolineato con enfasi il calo dello spread Btp-Bund sotto quota 100, citandolo come segno tangibile della ritrovata solidità dell’economia italiana. Un dato positivo, certamente, ma che necessita di essere inquadrato nel contesto europeo per essere compreso a fondo.
Cos’è davvero lo spread? Un indicatore di fiducia (e di rischio)
Lo spread misura la differenza di rendimento tra i titoli di stato italiani a 10 anni (Btp) e quelli tedeschi (Bund), considerati i più sicuri in Europa. In sostanza, più alto è lo spread, maggiore è il rischio percepito dagli investitori nei confronti del debito italiano. Un valore sotto i 100 punti è raro e generalmente visto come segnale positivo dai mercati.
Meglio degli altri? Non proprio
Sebbene il trend sia in miglioramento – a inizio aprile lo spread era ancora attorno ai 120 punti base – l’Italia continua a pagare un premio al rischio più elevato rispetto ad altri paesi europei. Al 14 maggio, lo spread francese era di 67,9 punti, quello spagnolo a 61,7, e persino la Grecia, spesso considerata il fanalino di coda, registrava un valore di 74,6. L’Italia resta quindi il paese con il differenziale più alto tra i grandi dell’eurozona.
Il mito della sicurezza italiana
Meloni è arrivata a sostenere che i Btp sarebbero considerati “più sicuri dei titoli di stato tedeschi”. Un’affermazione che non trova riscontro nei mercati finanziari: i Bund tedeschi restano il riferimento di affidabilità in Europa. Il calo dello spread italiano è da leggere semmai come il frutto di un momento favorevole, in parte dovuto al clima di stabilità e in parte alla ricerca di rendimenti più alti da parte degli investitori, non a un improvviso scatto di credibilità strutturale.
In sintesi: cauta fiducia, ma strada lunga
Lo spread in calo è una notizia positiva, ma non sufficiente a dichiarare conclusa la stagione dell’instabilità. I mercati apprezzano la stabilità politica e l’orientamento prudente sui conti pubblici, ma i fondamentali dell’Italia – debito elevato, crescita lenta, produttività stagnante – restano deboli. Per ridurre in modo duraturo il differenziale con gli altri Paesi europei serve qualcosa in più oltre ai dati temporaneamente favorevoli.