
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato il via libera nei giorni scorsi a una delle politiche più controverse dell’amministrazione Trump: la possibilità di deportare migranti irregolari verso paesi terzi, anche in assenza di legami familiari o geografici con tali destinazioni. Una svolta che rischia di trasformare la gestione dell’immigrazione in una vera e propria roulette geopolitica.
Espulsioni verso paesi ad alto rischio
Uno dei casi più recenti riguarda otto uomini deportati in Sud Sudan, uno dei quali — paradossalmente — è l’unico originario di quel Paese. Gli altri sette non hanno alcun legame con il territorio, che resta tra i più instabili e pericolosi al mondo. Una decisione che ha sollevato forti critiche da parte di organizzazioni umanitarie e osservatori internazionali.
Fermi a Gibuti, in attesa di un destino
Attualmente, il gruppo si trova bloccato a Gibuti, Paese africano dove sono stati trasferiti temporaneamente, in attesa che venga stabilito il loro destino finale. Le autorità locali non hanno chiarito se sarà possibile il rimpatrio o un ulteriore trasferimento. Nel frattempo, cresce l’allarme per la sicurezza e il rispetto dei diritti umani.
Una strategia al limite del diritto internazionale
Con questa nuova strategia, Washington si muove su un crinale sempre più sottile tra lotta all’immigrazione illegale e violazione delle convenzioni internazionali sui rifugiati. L’invio verso zone di conflitto come la Libia o il Sud Sudan solleva interrogativi non solo etici, ma anche giuridici.
Il messaggio è chiaro: “Non venite qui”
Più che una soluzione, la misura appare come un deterrente: spaventare i potenziali migranti scoraggiandoli dal tentare la traversata verso gli Stati Uniti. Ma a quale prezzo? Mentre la politica si polarizza, il destino di migliaia di vite resta appeso a un filo. Senza contare che quei migranti, illegali, hanno contribuiscono da decenni al successo economico statunitense.