L’ipocrisia dell’Occidente sull’Afghanistan e le lacrime di coccodrillo

Una rilettura della questione afgana. Ci scandalizziamo (giustamente) per la drammatica crisi del paese asiatico, ma è così che va la maggior parte del mondo. Solo che facciamo finta di non saperlo

L’ipocrisia dell’Occidente sull’Afghanistan e le lacrime di coccodrillo

Decine di disperati appesi gli uni agli altri sulla scala che salgono verso il portellone di un aereo. Poi sono arrivate le immagini degli afgani che corrono sotto le ali di un velivolo in fase di decollo, altri aggrappati alla carlinga e un paio che drammaticamente volano dall’alto del cielo. Il giorno dopo le madri che si strappano di dosso i figli per consegnarli ai marines oltre il muro dell’aeroporto. Quindi, sono giunti i fotogrammi dei cadaveri nella fogna con i documenti, i visti, i passaporti che galleggiano nell’acqua putrida. Abbiamo visto tutto questo.

Quello che sta accadendo in Afghanistan, e che ci strappa il cuore, succede ogni giorno in tanti altri posti del Pianeta di cui però poco sappiamo, e quel poco che sappiamo facciamo finta perlopiù di non saperlo. Ma che importa per tutti noi che siamo solo degli ‘analisti’ da salotto.

Eppure proprio in questi ultimi giorni ne sono successe di cose. In Cina ora i bambini dovranno studiare il pensiero del loro presidente, che come in Corea del Nord ora possono chiamare “zio”: tutto va bene, se righi dritto. In Marocco è stata appena scarcerata una giovane donna che aveva condiviso una vignetta sui social. L’Egitto ha rinviato dopo quasi due anni di detenzione preventiva la scarcerazione di Zaki, anche lui accusato di propaganda sovversiva sui social.

Altri esempi non sono invece delle novità ma delle realtà consolidate. In Arabia si va in carcere se sei donna e guidi l’auto da sola, o se sei omosessuale. Nelle Filippine è prevista la pena di morte per chi si droga. In Russia il capo dell’opposizione è in carcere. In Bielorussia a migliaia sono detenuti per aver chiesto la libertà. In Brasile non si contano gli omicidi di chi difende i diritti degli Indios. Nel vicino Messico il paese è (in parte) nelle mani dei narcos, che mitragliano giornalisti come fossero uccellini. Mentre la Turchia, membro Nato, detiene il triste primato mondiale del maggior numero di giornalisti in carcere. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Possiamo sostenere (grossolanamente) che tre quarti del mondo vive in queste condizioni, ogni giorno.

Il problema è che in questa scenografia globale dell’orrore la reazione delle economie avanzate è altrettanto cinematografica. Una grande fiction che ha un principale protagonista, gli Stati Uniti, che giocano a fare i gendarmi del mondo. Ma che hanno anche conosciuto, e continuano a farlo come in Afghanistan, il sapore amaro della sconfitta. Ora sarebbe sin troppo facile attaccare Washington. E la responsabilità dell’Europa dove la mettiamo? Spesso il Vecchio continente si lagna di essere solo un appendice della prima economia del mondo, ma allo stesso tempo l’Ue non si smarca mai dal pressing statunitense, neanche quando potrebbe. Come ad esempio a Kabul. Nessuno avrebbe vietato, in linea teorica, ai paesi europei di restare lì in forze. Il discorso cambia per Russia e Cina, nelle cui braccia sta finendo l’Afghanistan. “Mosca e Pechino quanto a democrazia non guardano troppo per il sottile”, ha commentato Jean Paul Fitoussi secondo il quale nel paese asiatico l’Europa ha perso l’occasione per fare la differenza. “È inutile illudersi che l’Occidente riesca a far valere la carta economica per indurre i talebani a più miti consigli, come hanno creduto gli americani”, ha commentato l’economista francese.

Poi ci siamo tutti noi, spettatori inermi di questo spettacolo agghiacciante. Di fronte al quale velocemente inorridiamo, e altrettanto velocemente lo rimuoviamo. La responsabilità di ciò che avviene nel mondo è come una torta gigante che offre una fetta, più o meno grande, a (quasi) tutti.

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