Land grabbing, i padroni della terra allungano le mani

Il quinto rapporto Focsiv sul land grabbing, ovvero l’accaparramento delle terre (un fenomeno in continuo peggioramento), scopre il vaso di Pandora. Eppure è dimostrato come gli investimenti su larga scala non garantiscano maggiori rese per ettaro. Il caso Ucraina

Land grabbing, i padroni della terra allungano le mani

La crisi ambientale generata dai cambiamenti climatici, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ed energetici, la speculazione finanziaria e, in ultimo, la guerra in Ucraina. Mettendo tutti insieme questi ingredienti in un frullatore, il risultato che si ottiene è un peggioramento del ‘land grabbing’, l’accaparramento di terre, come già era avvenuto con la crisi del 2008.

La corsa alla terra avviene soprattutto da parte degli attori pubblici e privati appartenenti ai sistemi geopolitici più potenti. Da qui parte la quinta edizione del rapporto ‘I padroni della terra’ realizzato da Focsiv.

Secondo i dati pubblicati da Land Matrix, il Perù è il paese più coinvolto al mondo dal land grabbing. Con oltre 16 milioni di ettari coinvolti su un totale globale di 91,7 milioni di ettari di terre accaparrate.

Seguono a distanza altri paesi latinoamericani (Brasile e Argentina), asiatici (Indonesia e Papua Nuova Guinea soprattutto), europei (Ucraina) e africani (Sud Sudan, Mozambico, Liberia, e Madagascar).

I principali accaparratori sono soprattutto i paesi occidentali. Dal Canada (quasi 11 milioni di ettari) alla Gran Bretagna, passando per gli Stati Uniti (quasi 9 mln), la Svizzera e il Giappone. A seguire le nuove grandi economie come la Cina (5,2 milioni di ettari) e l’India. Assieme alla Malesia (4,2 milioni di ettari) e alle sede di imprese multinazionali come Singapore (3 milioni di ettari).

Ci sono poi contesti dove l’accaparramento è domestico, ovvero è messo in atto da imprese dello stesso Paese. È il caso della Russia, che conta ben 26,4 milioni di ettari accaparrati in questo modo.

E poi c’è l’Ucraina: dei 60 milioni di ettari di superficie totale, il 55% è classificato come terreno coltivabile. È la percentuale più alta a livello europeo. Questa incredibile ricchezza di terreni fertili ha fatto guadagnare all’Ucraina il titolo di “granaio d’Europa”.

Una condizione dovuta al particolare processo fondiario avvenuto dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La riforma agraria del 1992 consegnò infatti a milioni di abitanti dei villaggi ucraini un piccolo appezzamento di terreno. In media quattro ettari ciascuno, che in precedenza era di proprietà statale.

Man mano che gli abitanti dei villaggi affittavano i loro appezzamenti per cifre irrisorie (per mancanza di capitale e perché la frammentazione degli appezzamenti impediva loro di sostenersi tramite il lavoro agricolo), migliaia di questi terreni si sono gradualmente concentrati sotto il controllo di pochi investitori. Soprattutto sotto forma di grandi aziende agricole.

Il 15% dei terreni agricoli in Ucraina è affittato da investitori stranieri: Cipro e Lussemburgo, noti paradisi fiscali, sono i primi Stati investitori, seguiti da Paesi Bassi, Singapore, Belize, Stati Uniti, Arabia Saudita e Germania.

Un capitolo del rapporto viene dedicato al tema dei biocarburanti, in quanto, soprattutto nella fascia equatoriale, il processo di accaparramento delle terre per finalità energetiche rischia di rinvigorirsi a causa della guerra in Ucraina (questo fenomeno si concentra soprattutto in Indonesia e Malesia, dove negli ultimi 20 anni si è avuto un boom della palma da olio).

Il rapporto conclude spiegando che è dimostrato come gli investimenti su larga scala non garantiscano maggiori rese per ettaro. Ma riducano l’occupazione agricola e la sicurezza alimentare locale, togliendo il possesso della terra ai contadini e l’uso di beni comuni. Ne consegue che l’agricoltura su piccola scala, se ben supportata, continua ad essere la migliore garanzia per la sicurezza alimentare locale.

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