Il caso turco: tassi di interesse al 19% e inflazione al 17,5%. Eppure il paese ‘dollarizzato’ continua a crescere

La Turchia è un paese in crescita e con ambizioni di egemonia. Ma l’avversione del suo presidente a tassi di interesse alti la espone al rischio di una pericolosa spirale di svalutazione, inflazione e fuga dei capitali.

Tassi al 19% e inflazione al 17,5%. Eppure il paese continua a crescere
Istanbul

La Banca centrale turca ha mantenuto invariato il tasso di riferimento principale al 19%, per il quarto mese consecutivo, una decisione in linea con le aspettative del mercato. “Tenendo conto dell'alto livello di inflazione e delle aspettative sul livello dei prezzi, l’attuale politica monetaria continuerà in modo determinato”, ha affermato la Banca centrale in una nota. In Turchia, secondo i dati ufficiali, a giugno l'inflazione era del 17,53% su base annua.

Tuttavia, il presidente turco è ostile agli alti tassi di interesse, considerati un freno alla crescita. A marzo, Recep Tayyip Erdogan ha improvvisamente sostituito il precedente governatore della banca centrale, Naci Agbal, dopo che aveva alzato il tasso di interesse principale della banca centrale di 200 punti base. La sostituzione del numero uno della Banca centrale turca ha provocato uno shock sui mercati che ha portato al crollo della lira turca. La nomina di Sahap Kavcioglu, quarto presidente della banca centrale in due anni, ha preoccupato molti osservatori che lo vedono come un governatore più malleabile e che probabilmente risponderà alle ingiunzioni del presidente turco.

L’idiosincrasia del presidente turco agli alti tassi d’interesse è tuttavia ufficialmente motivata dal fatto che l’alto costo del denaro, da un lato, indebolisce la crescita economica e, dall’altro, contribuisce a creare inflazione e non a combatterla. “Questa consecutio è stata poi giustificata da un’applicazione naif dell’effetto di Fisher, che sotto certe ipotesi prevede l’uguaglianza dei tassi d’interesse reali nei diversi paesi – spiega l’economista Rony Hamaui su lavoce.info -. Pertanto, un aumento del tasso d’interesse nominale in un paese come la Turchia provocherebbe un aumento delle aspettative d’inflazione e quindi stimolerebbe la crescita effettiva dei prezzi. Peccato che l’ipotesi presupponga la perfetta sostituibilità delle attività finanziarie, alquanto remota nel caso turco, data la presenza di un forte rischio di cambio e di credito”.

Al di là di questi dettagli, fra il 2003 (primo anno per Erdogan alla guida del paese) e il 2019 l’economia turca è cresciuta mediamente del 5,8% l’anno. Nel 2020 il paese è stato uno dei pochi, assieme alla Cina, a registrare un tasso di crescita positivo (+1,8%). Hamaui fornisce una chiave di lettura: “Una politica economica liberista, un apparato industriale ben diversificato e costruito attorno a piccole e medie imprese dinamiche, ampi investimenti stranieri e una forte apertura verso l’estero, spiegano questa performance. Certo, il Pil pro-capite, dopo una cavalcata formidabile, a partire dal 2013 ha cominciato ad arretrare, mentre la disoccupazione è salita sopra il 14%, ma con una popolazione in costante crescita che nel 2025 sfiorerà i 90 milioni.”

Allo stesso tempo, dal 2013 a oggi, il tasso di cambio della lira turca si è svalutato del 30%, passando da 2,3 a quasi 9 sull’euro. Questo nonostante continui e massicci interventi sul mercato valutario, che dal 2019 hanno comportato la perdita di 130 miliardi di dollari in riserve ufficiali. “Tutto ciò appare particolarmente critico in un paese sempre più ‘dollarizzato’ – aggiunge Hamaui -, in cui imprese e famiglie sono fortemente indebitate in valuta estera: le stime parlano di 140 miliardi di dollari di debiti in valuta, pari al 20% del Pil.”

Ecco perché la credibilità è particolarmente importante in un paese come la Turchia. “Agbal era riuscito a riconquistarla e ciò aveva permesso un forte recupero della lira e rilevanti afflussi di capitali, ma oggi appare quasi del tutto compromessa – precisa l’economista -. In un clima del genere una spirale di svalutazione, inflazione e fuga dei capitali risulta allora probabile e rischiosa. Farebbe aumentare l’onere del debito in valuta di numerose istituzioni e le porterebbe in una situazione di default. Scartata la leva dei tassi d’interesse, per evitare una crisi finanziaria non rimarrebbe che introdurre vincoli ai movimenti di capitale. Un’ipotesi non meno gravosa vista la forte dipendenza del paese dall’afflusso di capitali dall’estero. Insomma, un bel pasticcio per una nazione che ha enormi ambizioni di crescita e di egemonia.”

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