
Ai referendum dell’8 e 9 giugno su cittadinanza e lavoro non è stato raggiunto il quorum (cioè il numero minimo di voti necessario per la validità della consultazione; in questo caso avrebbe dovuto votare il 50% più uno dei cittadini che ne avevano il diritto).
A meno di due ore dalla chiusura dei seggi, avvenuta alle 15, sono state scrutinate 56.350 sezioni su 61.591 e l’affluenza è del 30%, secondo i dati diffusi dal ministero dell’Interno.
In base a questi dati, ai quattro referendum sul lavoro ha detto sì più dell’80% delle persone che hanno votato, mentre al referendum per la riforma della cittadinanza i favorevoli all'abrogazione si sono fermati a meno del 60%.
E qual è stata la reazione dei partiti? Il centro-destra, in particolare Forza Italia per bocca del suo segretario, ritiene che a questo punto occorra aumentare il numero delle firme necessarie per poter richiedere l’indizione di un referendum.
E c’è anche chi, a cominciare dai promotori del comitato ‘Basta quorum’, ritiene che sia il caso di uscire dall’impasse eliminando tout court la necessità di un qualunque quorum.
Sullo sfondo, la disaffezione crescente tra elettori e politica che dovrebbe far riflettere prima di proporre ricette troppo semplicistiche a fenomeni e problemi complessi.
Certo, se neanche gli elettori di centro-sinistra vanno in massa a votare ai referendum che si propongono di ridurre la precarietà e l’eccesso di flessibilità nel mercato del lavoro, vuol dire che forse la nota frase di Ennio Flaiano (“la situazione della politica italiana è grave ma non seria”) andrebbe attualizzata (in senso peggiorativo).