Le multinazionali che ancora ‘russano’: i numeri (scomodi) degli affari con il Cremlino

Mentre infuriano guerra e sanzioni, molte aziende occidentali — anche italiane — continuano a fare affari con Mosca. E Zelensky avverte: “Niente ricostruzione per chi finanzia Putin”.

I numeri (scomodi) degli affari con il Cremlino
Mosca

Nonostante due anni di guerra e sanzioni, molte multinazionali occidentali non hanno mai lasciato il mercato russo. Nel solo 2022, le aziende estere hanno versato oltre 4 miliardi di dollari in tasse al governo russo. Nel 2023, questo contributo fiscale è salito a 21,6 miliardi, pari a un terzo del bilancio militare russo del 2025.

L’avviso di Zelensky

Alla recente Ukraine Recovery Conference di Roma, Volodymyr Zelensky ha lanciato un messaggio chiaro: le imprese che non hanno mai abbandonato la Russia verranno escluse dai progetti di ricostruzione in Ucraina. E ha promesso di rendere pubblici i nomi di chi ha continuato a fornire componenti e tecnologie anche a uso bellico.

L’Italia tra i top partner economici

L’Italia è tra i primi dieci Paesi per numero di aziende ancora attive in Russia. Secondo l’elenco aggiornato dal Chief Executive Leadership Institute di Yale, oltre 100 aziende italiane — tra cui Barilla, Campari, Luxottica, Benetton, Geox, Ferrero e Saipem — risultano ancora presenti, seppur alcune con attività ridotte o investimenti sospesi.

I giganti che alimentano l’economia russa

Il rapporto della Kyiv School of Economics evidenzia che nel 2023 1.600 multinazionali hanno generato 196,9 miliardi di dollari di ricavi in Russia e 16,8 miliardi di utili. Tra i principali contribuenti: Mars, Nestlé, Procter & Gamble, Coca-Cola, Pepsi, Philip Morris, L’Oréal. Solo queste aziende hanno pagato oltre 1,5 miliardi di dollari in imposte a Mosca.

“Affari come se niente fosse”

Dalla Francia alla Germania, passando per Slovenia, Austria e Danimarca, sono decine le imprese che, nonostante le linee guida politiche dei rispettivi governi, continuano con un business as usual. E alimentano indirettamente — secondo i critici — l’economia di guerra del Cremlino.

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