Il salario minimo orario non basta. Ecco perché

Il problema della povertà lavorativa non si risolve con l’introduzione di una paga oraria minima per legge. Occorre concentrare l’attenzione anche sulla quantità di tempo lavorato

Il salario minimo orario non basta. Ecco perché
Vignetta di AGJ

In Italia ci sono più di 3 milioni di persone che pur lavorando risultano povere. Ma un intervento sul salario minimo orario, indipendentemente dalla cifra, non può considerarsi come risolutivo, per vari motivi. Tra questi c’è il fatto che il salario complessivo di un lavoratore non dipende solo dalla sua paga oraria, ma anche dalla quantità di ore lavorate nel corso di un anno. 

Le differenze nelle ore lavorate tra lavoratori spiegano una parte significativa delle disuguaglianze di reddito e del loro andamento nel tempo. E la quantità di ore lavorate è anche una delle cause principali della povertà lavorativa.

Secondo i calcoli di Francesco Armillei e Ivan Lagrosa, i lavoratori con un reddito annuo al di sopra della soglia di povertà lavorano in media 51 settimane durante l’anno, mentre quelli al di sotto della soglia non superano le 30 settimane. Il lavoro povero sembra quindi principalmente attribuibile al tempo (non) lavorato e non all’ammontare del salario orario.

Per esempio, i lavoratori che guadagnano in media meno di 9 euro orari sono proprio coloro che lavorano relativamente meno settimane durante l’anno – in media 35 contro le 47 di chi guadagna più di 9 euro l’ora.

Un eventuale innalzamento del salario orario per coloro al di sotto della soglia dei 9 euro orari riguarderebbe quindi principalmente lavoratori che risultano impiegati per relativamente poche settimane durante l’anno e avrebbe un effetto marginale sul loro salario complessivo annuale.

Scendiamo nel dettaglio, disegnando tre scenari possibili.

1. Innalzamento a 9 euro della retribuzione oraria di tutti i lavoratori al di sotto di tale soglia, mantenendo invariate le ore lavorate durante l’anno: la percentuale di dipendenti in povertà lavorativa al di sotto dei 12.700 euro annui scende dal 29 per cento osservato nei dati al 27,5 per cento.

2. Incremento per tutti i lavoratori delle settimane lavorate durante l’anno a 52, mantenendo invariate le ore lavorate a livello settimanale (il salario orario resta invariato): la percentuale di dipendenti in povertà lavorativa scende al 17 per cento.

3. Incremento per tutti i lavoratori delle settimane lavorate durante l’anno a 52 e trasformazione di tutti i contratti part-time in contratti full time (anche in questo caso lasciamo il salario orario invariato): la percentuale di dipendenti che in un anno guadagnano meno della soglia dei 12.700 euro scende fino al 2 per cento.

Pur rimanendo un esercizio puramente teorico, che astrae da effetti dinamici e di equilibrio generale, ci aiuta a comprendere come sia principalmente la quantità di settimane e ore lavorate durante l’anno a determinare se un lavoratore sia o meno in una condizione di relativa povertà lavorativa.

I dati sin qui proposti mostrano l’importanza di un approccio multidimensionale per affrontare il problema della povertà lavorativa. L’introduzione di un salario minimo orario è un tassello importante del quadro.

Governo e opposizioni dovrebbero, tuttavia, arricchire la loro agenda – suggeriscono Francesco Armillei e Ivan Lagrosa su lavoce.info - con misure che intervengano su almeno altri quattro fronti: quello contrattuale, limitando le forme di lavoro atipico; quello fiscale, progettando un in-work benefit per sostenere i redditi bassi e favorire l’emersione del sommerso; quello industriale, orientando il tessuto imprenditoriale verso lavori a maggiore valore aggiunto; e quello formativo, investendo nelle competenze dei lavoratori.

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