Quell’Italia che era fondata sul lavoro

Il lavoro era, nell’identità degli italiani, nella loro esperienza di vita, forse il fattore centrale: ogni persona era anche, se non soprattutto, il lavoro che faceva. Per molti, e da molti anni, non è più così

Quel paese che era fondato sul lavoro

Ecco alcuni passaggi del commento di Michele Serra sul 2 giugno pubblicato su ‘Repubblica’.

Il doppio sconquasso pandemia-guerra, con le sue pesantissime ricadute economiche, ha aggravato, non certo creato, la vera enorme questione irrisolta della democrazia, che è l’uguaglianza delle possibilità. Tutti uguali in partenza, poi sarà la vita a valorizzare i meriti individuali. Si è pensato, per almeno due generazioni, dalla Ricostruzione al Duemila, che il lavoro fosse il terreno sul quale sperimentare, nei termini più concreti, e anche più conflittuali, la partita dei diritti, le speranze di miglioramento sociale, la lotta per l’equità e per una più equilibrata ripartizione del potere tra le classi sociali. Ma il lavoro era, nell’identità degli italiani, nella loro esperienza di vita, forse il fattore centrale: ogni persona era anche, se non soprattutto, il lavoro che faceva. Per molti, e da molti anni, non è più così. Il lavoro ha perso centralità, anche centralità esistenziale. Non si è più il lavoro che si fa, specie tra molti italiani delle nuove generazioni. E perfino il mito del “posto fisso”, pigro e stagnante, alla Checco Zalone, rimanda a un’Italia, se non estinta, abbastanza residuale. I dati Istat segnano il massimo storico dei lavoratori precari, tre milioni e 166 mila. Calano i lavoratori dipendenti e i lavoratori autonomi. Aumentano di parecchio gli inattivi, coloro che non hanno lavoro e nemmeno più lo cercano, la misteriosa zona grigia di chi a quella gara ha scelto di non partecipare più, o è stato costretto al ritiro. Dico misteriosa perché i segnali di una sorta di auto-dimissione di massa dal lavoro sono molteplici, non solamente in Italia, e per quanto varie o imperscrutabili siano le cause del fenomeno, dicono tutte che il lavoro è meno importante, meno decisivo di prima. Che lo sia per disperazione di chi lo cerca e non lo trova, o per ragioni sociali e culturali più profonde, che scopriremo negli anni a venire, non si sa. Ma per una Repubblica fondata sul lavoro, che il 2 giugno celebra se stessa per celebrare i suoi sacrosanti principi di uguaglianza, di inclusione e di progresso, questo cambiamento non è poca cosa. È un rivolgimento storico, uno choc e anche un cruccio, perché quella leva formidabile di riscatto sociale, dunque di lotta alle disuguaglianze, di redistribuzione di reddito e di influenza politica, oggi appare molto più in ombra, più inafferrabile. La Repubblica fondata sul lavoro fatica a ritrovare il bandolo delle proprie ragioni costitutive: se il lavoro è una nebulosa così vaga, precaria, cangiante, su quale terreno fondare, e con quali strumenti avverare quella “unità delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini” dei quali Sergio Mattarella parlò insediandosi al Quirinale nel suo primo settennato?

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