L’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari diminuiscono

Rispetto al 1990 le retribuzioni medie sono scese del -2,6%, a differenza di Germania (+34%), Francia (+31%), e Spagna (+6%)

L’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari diminuiscono

Nei paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) il salario medio annuale è più che triplicato negli ultimi 25 anni. In alcuni paesi dell’Europa centrale (Ungheria e Slovacchia) è raddoppiato. L’Italia è invece l’unico paese in cui è diminuito.

I dati riguardano la variazione percentuale dei salari annuali tra il 1990 e il 2020. Per Lituania, Estonia, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovenia, Grecia e Portogallo i primi dati sui salari annuali risalgono al 1995. Per la Slovacchia risalgono invece al 1994, per la Lettonia al 1996 e per la Germania al 1991.

L’Italia va, dunque, in retromarcia. Sullo sfondo la crescita esponenziale dei contratti a termine, che fanno sembrare in discesa la disoccupazione e che, in realtà, alimentano il lavoro precario e povero.

C’è poi la crescita delle partite Iva dovuta alla trasformazione forzata di contratti da dipendente in lavoro autonomo precario e l’incremento della povertà, anche tra i lavoratori occupati (oltre 5 milioni di persone in povertà assoluta e oltre due milioni di famiglie sotto la soglia di povertà relativa secondo l’Istat).

A questo scenario occorre aggiungere la situazione di molti lavoratori autonomi colpiti dalla pandemia (i numeri dicono che in tanti hanno deciso di gettare la spugna).

Le responsabilità non coinvolgono direttamente il governo Draghi, ma affondano le radici nel recente passato. Negli ultimi dieci anni, in Italia, i contratti a tempo determinato sono aumentati di oltre 800 mila unità registrando un’impennata del +36,3% con una variazione dell’occupazione complessiva pari appena all’1,4% (dati elaborati nel Rapporto Inapp 2021) .

Anche la distribuzione funzionale del reddito ha mostrato un peggioramento persistente come conseguenza della contrazione marcata delle retribuzioni salariali a fronte del trend crescente, seppur debolmente, della produttività del lavoro.

La flessibilità nel nostro Paese si traduce così in una sempre maggiore precarietà, un andamento che continua anche nella ripresa post Covid dove sono spesso i contratti a termine, part time e di somministrazione ad essere scelti dalle imprese.

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