Le relazioni sino-americane sono più solide che mai (al di là delle apparenze)

Sia Trump che Biden sostengono di puntare a ridurre i rapporti commerciali con la Cina. Ma i dati raccontano un’altra storia

Le relazioni sino-americane sono più solide che mai

Donald Trump e Joe Biden apparentemente non vanno molto d’accordo, ma sono sicuramente dello stesso parere quando si tratta delle relazioni commerciali degli Stati Uniti con la Cina. Ritengono, entrambi, che la più grande economia del mondo sia semplicemente troppo dipendente dalla seconda

Cosa dicono i dati a tal riguardo? Dal 2017 la quota delle importazioni americane provenienti dalla Cina è in effetti scesa di un terzo, attestandosi intorno al 14 per cento, secondo i dati statunitensi. Questi dati, tuttavia, non sembrano raccontare l’intera storia.

La Cina, infatti, riferisce che le sue esportazioni verso gli Usa sono aumentate di 30 miliardi di dollari tra il 2020 e il 2023, mentre Washington sostiene che le sue importazioni cinesi sono diminuite nello stesso periodo di 100 miliardi di dollari.

Come si spiega tale divario? Secondo la società di consulenza Absolute Strategy, il cambiamento riflette il fatto che gli importatori americani sono incentivati a non dichiarare quanto acquistano dalla Cina nei comparti coperti dai dazi. Con il risultato che l’import americano proveniente dalla Cina potrebbe essere sottostimato del 20-25%. Allo stesso tempo, negli ultimi anni Pechino ha ridotto le tasse sugli esportatori, riducendo l’incentivo per le aziende presenti in Cina a sottostimare le merci che lasciano il Paese.

Non è tutto qui. Altri dati forniscono ulteriori motivi di scetticismo sul disaccoppiamento sino-americano. Le tabelle “input-output”, pubblicate dalla Banca asiatica di sviluppo, mostrano la quota di attività economica di un Paese che può essere ricondotta ad altri Stati. Esaminando 35 settori, nel 2017 ad esempio il settore privato cinese ha contribuito in media allo 0,41 per cento degli input delle imprese americane. Potrebbe non sembrare granché, ma è comunque una quota superiore allo 0,38 per cento della Germania e allo 0,24 del Giappone. Nel 2022, poi, la quota della Cina era più che raddoppiata, raggiungendo l'1,06 per cento, evidenziando un aumento proporzionale maggiore rispetto a quello tedesco e nipponico.

Cosa si nasconde dietro questa tendenza? Di sicuro, il governo cinese non ha intenzione di rinunciare a un ruolo da protagonista nelle catene di approvvigionamento globali e non per caso ha reso prioritaria l’espansione del commercio di prodotti intermedi.

Secondo le stime prodotte dall’Economist, dal 2019 le esportazioni globali di beni intermedi della Cina sono aumentate del 32 per cento, a fronte di un incremento di altri tipi di esportazioni, come i prodotti finiti, pari solo al 2 per cento.

Tale impennata è guidata dalle esportazioni di Pechino verso Paesi come l’India e il Vietnam, ovvero due importanti partner commerciali degli Usa. Il commercio americano con questi Paesi sta a sua volta aumentando, passando dal 4,1 per cento delle importazioni di beni nel 2017 all’attuale 6,4. E con ciò il cerchio si chiude.

La combinazione di queste tendenze implica che i due Paesi agiscono perlopiù come una sorta di hub di imballaggio (anziché di produzione) per le merci prodotte con input cinesi e destinate alle coste americane. Il quadro ora è più chiaro: le catene di approvvigionamento cinesi risultano ora meno visibili, ma rimangono estremamente importanti per l'economia americana.

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