I figli di Putin…

Guerra, Esg e marketing. Il mercato delle cause umanitarie “à la carte”. La guerra in Ucraina rilancia gli investimenti nella Difesa. Pubblici e privati. Perfino di fondi che si dicono sostenibili

I figli di Putin…

Le banche, che nel nostro modello finanziarizzato sono come portabandiera alle olimpiadi, in questi giorni sono protagoniste delle situazioni più surreali. Una delle più impegnate in Italia nel sostegno al commercio dei sistemi d’arma nucleare ha pensato che il suo dovere fosse quello di mettere delle bandiere Ucraine in giro per le sue sedi storiche. Un’altra, che stava sostenendo le trivellazioni nell’Artico per la ricerca di nuovi giacimenti ha sospeso tutto, e non perché si sia accorta che stava massivamente contribuendo alla trasformazione del pianeta in un grande forno, ma perché il suo partner tecnologico era russo.

Altre, si stanno invece rimangiando un bel po’ di impegni presi quando le cause della sostenibilità andavano di moda. E riscrivono policy di finanziamento al mercato delle armi. È infatti opinione diffusa che se si vuole la pace va preparata la guerra, sebbene sia controintuitivo. Possiamo immaginare i sorrisi dei lobbisti a libro paga delle multinazionali del settore. Evidentemente l’1,5% per cento del Pil dell’Ue per la difesa, i 198 miliardi a cui siamo giunti dal 2014 ad oggi, non bastavano.

Nel frattempo i banchieri si erano inventati le politiche Esg (acronimo che indica il rispetto dei criteri di basso impatto ambientale, responsabilità sociale e amministrazione equa e paritetica). Avevano eletto a causa del momento la sostenibilità ambientale. E avevano cominciato a raccogliere montagne di denaro di fondi pensione e compagnie simili su prodotti con impronte di CO2 a volte solo di poco inferiori a quelle “brutte e cattive” dello Standard & Poor’s, per esempio.

Lo scorso anno 120 miliardi di dollari nel 2021 sono stati investiti in fondi e derivati vari che dell’ambiente avevano assunto giusto il colore di base. Ma che poi non utilizzano se non per meno della metà i dati climatici delle aziende per stabilire se includerle o meno nella lista.

Con la questione del disarmo non ci provano nemmeno. Non li sfiora nemmeno l’idea di essere lì per cambiare la cassetta degli attrezzi finanziari, per sfidare la cecità di un’industria per la quale le esternalità negative sono quella cosa che in una qualche maniera verrà compensata con qualche arbusto in Burkina Faso, una milionata di euro in aiuti ai profughi e qualche bella foto sul sustainability report. O su Instagram.

Sapevano tutti perfettamente che la Russia era in mano ad un despota. E sapevano tutti perfettamente che l’oil&gas sarebbe stata l’arma più robusta nei suoi arsenali. Ma le banche hanno fatto di tutto per poterne inserire almeno una parte nella tassonomia europea delle attività economiche considerate sostenibili. E ora che i loro “asset” perdono tra il 66 e il 91% provano a spostarsi sulle armi. Perché le guerre, si sa, possono essere anche giuste. A volte persino sante.

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