Nel 2022 sono stati tagliati 4,1 milioni di ettari di foresta vergine tropicale, pari a un aumento del 10 per cento rispetto al 2021. A certificarlo è il secondo rapporto del World Resources Institute (pubblicato il 27 giugno). Il paese più colpito dalla distruzione di queste aree cruciali per la biodiversità e l’assorbimento di anidride carbonica è il Brasile con una superficie persa pari al 43 per cento del totale (anche se il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, insediatosi a gennaio, si è impegnato a porre fine alla distruzione dell’Amazzonia brasiliana entro il 2030), davanti alla Repubblica Democratica del Congo (13 per cento) e alla Bolivia (9 per cento), mentre l’Indonesia ha invertito la rotta e ha ridotto la perdita di foreste rispetto agli anni precedenti.
Le foreste primarie tropicali distrutte nel 2022 hanno rilasciato 2,7 miliardi di tonnellate di CO2, equivalenti alle emissioni annuali dell’India, il paese più popoloso del mondo. E la distruzione delle foreste continua inesorabilmente con un aumento dell’area distrutta del 10 per cento in più rispetto al 2021, nonostante gli impegni presi alla COP26 di Glasgow nel 2021 dai massimi leader mondiali.
Ma cosa accadrebbe se il bacino amazzonico, martoriato dai cambiamenti climatici e dalla deforestazione, si trasformasse in una savana? Sconvolgerebbe profondamente le condizioni meteorologiche del Sud America e del resto del pianeta. Circa 90 miliardi di tonnellate di CO2 sono immagazzinate negli alberi e nei terreni della foresta pluviale amazzonica, il doppio delle emissioni globali annuali. D’altronde, a livello globale, la vegetazione e il suolo da soli hanno assorbito quasi il 30 per cento delle emissioni di carbonio dal 1960, ma nel frattempo queste ultime sono aumentate della metà.
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