.png?box=650x850)
Quasi due terzi di tutto il debito pubblico esistente oggi al mondo, in valore, è debito pubblico statunitense (37 mila miliardi di dollari su 59 mila miliardi). Metà dei titoli emessi per coprire il nuovo deficit nel mondo nel 2025 saranno titoli del Tesoro a stelle e strisce. L’amministrazione Trump si è posta una domanda: come evitare una crisi di debito senza chiedere sacrifici agli elettori, ai gruppi d’interesse, ai grandi finanziatori dei repubblicani?
Di qui l’idea di usare i dazi come un’imposta indiretta sugli stranieri (ma in realtà sui consumatori americani). Di qui anche l’idea di diffondere gli stablecoin, perché gli emittenti sono tenuti a investire le loro riserve in titoli di debito americano.
Ma sono tutti stratagemmi parziali, per un Paese ormai così avanti nel suo ciclo di degrado fiscale.
Come mostra l’ultimo rapporto dell’Ocse sul debito pubblico nel mondo, gli Stati Uniti hanno di gran lunga la maggiore necessità di rifinanziamento – in proporzione all’economia nazionale – fra le 38 democrazie avanzate del club: l’anno scorso hanno dovuto trovare creditori di loro carta sovrana di nuova emissione per quasi un terzo del loro prodotto lordo (Pil). E il dato non scenderà.
Dopo Israele (che era in guerra) nel 2024 gli Stati Uniti hanno anche il deficit pubblico più alto in proporzione al Pil fra i trentotto Paesi dell’Ocse, malgrado la crescita rapida e la piena occupazione. Anche qui Trump non potrà che continuare come e più di prima, visti gli oltre tremila miliardi di nuovo debito nel prossimo decennio promessi dal ‘Big beautiful bill’ da poco approvato. Inevitabile poi che questo si rifletta sul debito pubblico, da allora diminuito molto in Grecia e Portogallo, calato anche in Spagna, mentre in Italia è salito ancora e in Francia è esploso.
E non sarà semplice trovare sempre investitori in nuovi titoli del Tesoro americano, per una ragione specifica: allo scopo di tenere sotto controllo il costo degli interessi, che sta salendo verso quota mille miliardi di dollari, negli ultimi anni le amministrazioni hanno emesso e venduto sempre più titoli di debito a breve e a brevissimo termine (i cosiddetti “bills”).
Gli Usa hanno la quota di debito pubblico a breve e brevissimo termine più alta dell’Ocse e quella salita di più negli ultimi cinque anni. In questo la superpotenza è in una situazione un po’ da Paese emergente, che non riesce più a finanziarsi con un piano di lungo respiro. Così va in affanno. Il Tesoro di Washington è costretto a tornare sempre più spesso sul mercato chiedendo quantità immense di denaro agli investitori. Non fosse l’America – con il dollaro, la supremazia tecnologica e quella militare – un Paese del genere sarebbe già saltato.
Neanche per l’America però navigare in acque simili sarà banale o privo di rischi. Di qui l’attacco di Trump a Jay Powell e alla Fed, condotto in un tipico stile da autocrate di un Paese in via di sviluppo. E non cambierà il fatto che il 22 agosto il governatore della Fed abbia aperto alla possibilità di un taglio dei tassi di interesse a settembre. Circostanza subito bollata come troppo tardiva dalla Casa Bianca. È sempre più chiaro che Trump pensa di risolvere il problema statunitense sopprimendo l’indipendenza della Fed, quantomeno con la nomina di un fedelissimo al suo timone. Al più tardi, questi entrerebbe in carica alla scadenza da maggio 2026.
Una banca centrale sotto il controllo del potere politico può abbassare i tassi – come chiede il tycoon – anche se la piena occupazione e l’inflazione sospinta dai dazi lo sconsigliano. Ciò ridurrebbe (nell’immediato, almeno) il costo in interessi degli oltre diecimila miliardi di dollari di carta sovrana che il Tesoro americano deve vendere ogni anno. Ciò alimenterebbe anche nuova inflazione negli Stati Uniti, riducendo il valore reale del debito esistente. Il che metterebbe in seria difficoltà i creditori di mezzo mondo (che detengono una parte rilevante del debito Usa). Con tutte le conseguenze del caso.