Dal 1970 consumiamo ogni anno il 170% della capacità rigenerativa della Terra. Significa che bruciamo risorse a una velocità quasi doppia rispetto alla capacità naturale di ripristinarle. È come vivere di continuo in overdraft ecologico: un debito invisibile, ma che prima o poi arriva a scadenza.
Le imprese dipendono dalla natura (ma non la contabilizzano)
Il 72% delle aziende europee dipende direttamente dai servizi ecosistemici: acqua pulita, suolo fertile, clima stabile, impollinatori, materiali naturali. Eppure, nei bilanci societari non compare una riga dedicata al capitale naturale. Un paradosso che mina stabilità, competitività e gestione del rischio.
Nei bilanci nazionali la natura non esiste
Foreste, zone umide, biodiversità sono asset economici reali, generano ricchezza e mitigano danni. Ma nei conti pubblici, così come nei bilanci d’impresa, il loro valore non appare da nessuna parte. Gli Stati continuano a misurare il progresso con un unico numero: il PIL. E questo indicatore – avverte l’economista di Cambridge Partha Dasgupta – racconta solo una metà della storia.
Dasgupta: “Stiamo perdendo senza accorgercene”
Nel suo nuovo libro, Dasgupta sintetizza il problema con una metafora fulminante: “Misurare solo il PIL equivale a contare i gol segnati ignorando quelli subiti”. Una squadra che non guarda la propria difesa prima o poi perde la partita. È esattamente il punto in cui si trova il nostro modello economico globale.
Il capitale naturale vale quanto fabbriche e infrastrutture
La natura è un capitale produttivo: sequestra CO₂, regola il clima, protegge dalle alluvioni, alimenta l’agricoltura, sostiene intere filiere industriali. Eppure continuiamo a trattarlo come una risorsa gratuita e inesauribile. L’esito? Un impoverimento sistemico che non compare in nessuna statistica, ma che definisce il futuro.



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