La fine del modello tedesco

La Germania affronta il crollo del suo modello economico di fronte al conflitto in Ucraina e alla nuova Guerra fredda con la Cina

La fine del modello tedesco

Non deve essere facile scoprire da un giorno all’altro che il modello di business del proprio paese è sull’orlo del fallimento. E che la favola raccontata per decenni dalla classe politica tedesca, ovvero che il benessere sarebbe durato molto a lungo, rischia di restare tale. La Germania, incontrastata prima economia europea, ora vede le sue sorti legate alla volontà di altri paesi diventati, nel frattempo, nemici.

Il modello economico tedesco si è basato sul gas russo a basso costo e sull’eccellenza nell’ingegneria meccanica a media tecnologia, in particolare la produzione di automobili con motori a combustione interna. Ciò ha portato a massicci surplus commerciali durante quattro distinte fasi successive alla Seconda guerra mondiale: sotto il sistema di Bretton Woods guidato dagli Stati Uniti, che ha fornito tassi di cambio fissi e accesso al mercato in Europa, Asia e nelle Americhe; poi, dopo il crollo di Bretton Woods, quando il Mercato unico europeo si dimostrò altamente redditizio per le esportazioni tedesche; in seguito all’introduzione dell’euro e alla crescita dell’export verso le periferie europee; e, infine, quando è salita la fame della Cina di prodotti manifatturieri intermedi mentre si stava smorzando la domanda di beni tedeschi nell’Europa meridionale.

Gli abnormi surplus fiscali accumulati da Berlino rappresentano tuttavia un fallimento monumentale: la grande capacità di investimento della Germania, favorita da lunghi anni di tassi di interesse ultra-bassi, non è stata indirizzata nella transizione energetica, nelle cosiddette infrastrutture critiche, e nelle due tecnologie cruciali del futuro: le batterie e l’intelligenza artificiale. Nulla di tutto ciò.

In effetti, la Germania non ha alcun ‘campione nazionale’ a livello globale nei settori più innovativi (il discorso vale anche per gli altri paesi dell’Ue). Così la locomotiva del Vecchio continente ha continuato a macinare surplus a una velocità tale da non accorgersi che lo spazio di frenata non avrebbe impedito all’economia tedesca di finire nel burrone: troppo alta la dipendenza dal gas russo e dalla domanda cinese.

Il governo tedesco ha poi lasciato credere ai propri cittadini (secondo numerosi osservatori sbagliando) che sarebbe stato possibile salvare l’euro, dopo la crisi del 2008, se gli altri paesi dell’area avessero applicato abbastanza austerità. Ma ora i tedeschi si stanno rendendo conto che pure la Bce è in cul de sac: se aumenta sostanzialmente i tassi di interesse, mette in difficoltà l’Italia e altri paesi finanziariamente dissestati (per questo motivo Francoforte ha da poco varato lo scudo antispread); se non lo fa, l’inflazione continuerà probabilmente a salire.

In tutto ciò, in modo apparentemente paradossale, le esportazioni tedesche rimbalzeranno prima o poi, aiutate dal basso valore dell’euro. Volkswagen venderà molte più auto elettriche una volta ripristinate le catene di approvvigionamento. Basf si riprenderà, una volta che le forniture energetiche saranno assicurate. Ciò che invece non tornerà è il modello tedesco: una grande fetta dei ricavi di Volkswagen andrà in Cina, da dove arriveranno le tecnologie delle batterie, e montagne di valore si sposteranno dall’industria chimica ai settori legati all’intelligenza artificiale.

Uno scenario cupo per la quarta economia al mondo, ma non nero. La Germania ha un asso nella manica per provare a progettare un nuovo modello economico: si chiama sovranità, ovvero la possibilità di fare qualcosa senza dover chiedere il permesso dei creditori. Un vantaggio che, ad esempio, la Grecia non ha avuto nel 2010.

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