Nel 2022, su 8,1 milioni di nuove assunzioni, solo il 17 per cento era a tempo indeterminato

La “precarietà” riguarda 7 milioni di persone tra lavoratori a termine, disoccupati e inattivi disponibili al lavoro. Sarebbe utile rendere più onerosi i contratti a tempo determinato

8 mln di nuove assunzioni, ma solo il 17 per cento a tempo indeterminato

Nel 2022, su oltre 8,1 milioni di nuove assunzioni, solo il 17 per cento era a tempo indeterminato. Confrontando i dati annuali delle comunicazioni obbligatorie con il cartogramma delle forze lavoro Istat, è inoltre possibile presumere che solo un quinto dei circa 3,2 milioni di lavoratori a termine abbiano una possibilità di stabilizzazione.

Di fatto, il peso dei contratti atipici resta marginale (meno del 20 per cento) rispetto al totale dei contratti di lavoro in Italia, ma il problema è la prospettiva con cui si leggono questi dati.

In Italia, se sommiamo ai 2,5 milioni di lavoratori atipici non stabilizzati, i disoccupati (circa 2 mln) e gli inattivi disponibili al lavoro (circa 2,4 mln) si arriva a quota 7 milioni di individui. Si tratta di un bacino enorme di soggetti.

Il punto è che solo una percentuale minima del livello di disoccupazione è dovuta a un problema di mismatch di competenze (ovvero al disallineamento tra domanda e offerta), ipotesi secondo cui esisterebbe un mercato del lavoro di posti stabili ben remunerati pronti a essere colti, basta acquisire le giuste competenze.

In realtà, è difficile riqualificare la quasi totalità di queste persone verso una professione che richiede un percorso di medio-lungo periodo con un esame finale: se va bene, si riesce a coinvolgere il 10 per cento, di cui forse quasi la metà arriverà ad acquisire una nuova qualifica professionale. 

Supponendo che, su 7 milioni di persone, si riuscisse a coinvolgerne 700 mila, tra lavoratori poco qualificati, disoccupati e inattivi, ci sarebbero poi opportunità di impiego in linea con le competenze acquisite? Qui sorge un altro problema, la qualità dei lavori offerti. Infatti quello italiano, sia in termini di stock e di flusso, è un mercato a bassissime qualifiche; quindi dove sono questi milioni di posti di lavoro altamente qualificati che spesso emergono da indagini sulle difficoltà di reperimento della domanda di lavoro?

Occorre poi considerare che l’eccessiva precarietà genera sfiducia e scarsa motivazione alla formazione di competenze on the jobperché, infatti, investire tempo in capitale umano quando esistono strategie imprenditoriali (soprattutto nei servizi) caratterizzate da alto turn-over, bassa possibilità di carriera e salari da sopravvivenza?

Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, il discorso è decisamente più complesso. Infatti, oltre ai lavoratori stagionali, le imprese potrebbero effettivamente aver bisogno di manodopera temporanea per picchi di produzione. Perché allora non far pagare di più i contratti a termine, in modo da far ricadere in parte i costi della precarietà sulle imprese utilizzatrici?

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