Ecco perché l’intesa sulla Brexit non è un ‘buon accordo’

Dopo 10 mesi di accese trattative e un’ultima sofferta tornata negoziale di oltre una settimana, il Regno Unito e l’Ue hanno trovato mercoledì 24 dicembre uno storico accordo su un trattato di partenariato post-Brexit che regolamenterà i loro rapporti dal 1° gennaio, quando la Gran Bretagna lascerà il Mercato unico e l’Unione doganale.

Ecco perché l’intesa sulla Brexit non è un ‘buon accordo’

Angela Merkel lo ha definito di “importanza storica”. Emmanuel Macron ha detto che “la solidarietà europea ha mostrato la sua forza”. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, più cautamente, ha parlato di “un buon risultato”. Il premier Giuseppe Conte ha definito l’accordo “positivo per cittadini e per le imprese italiane e britanniche”. Un Boris Johnson soddisfatto ha detto che “la Gran Bretagna recupera il controllo del proprio denaro, delle proprie frontiere, delle proprie leggi, della propria politica commerciale e delle proprie acque marittime”. Al di là di questa dichiarazione, il primo ministro britannico ha comunque dimostrato ancora una volta quanto sia utile “fingere di essere un pazzo”, come spiega un editoriale di ‘Le Monde’.

Tre nodi hanno complicato il negoziato: l’accesso del Regno Unito al Mercato unico, nel rispetto delle regole sugli aiuti di Stato; il meccanismo di soluzione delle controversie; e la regolamentazione della pesca nel Mare del Nord. Su quest’ultimo fronte, la questione si è rivelata particolarmente complessa, anche se per Londra il settore vale lo 0,1% del suo Pil.

Il pescato comunitario nelle acque costiere britanniche diminuirà del 25% su un periodo di 5 anni e mezzo (ossia fino al giugno 2026). Terminato il periodo di transizione, la discussione sarà annuale. In origine, Londra avrebbe voluto una riduzione del 60% su tre anni. È evidente che la Gran Bretagna ha dovuto fare un notevole passo indietro.

Ma torniamo ai dati macroeconomici complessivi. L'Unione esporta verso il Regno Unito l'8% del proprio export; la Gran Bretagna vende in Europa il 47% del suo export. E sebbene non ci saranno dazi, il commercio dovrà superare le barriere doganali il che farà salire i costi aziendali. Dal 1° gennaio, infatti, le merci che vanno dal Regno Unito all’Ue (e viceversa) dovranno essere dichiarate in dogana. In concreto, un’azienda britannica che esporta nell’Ue dovrà fare una dichiarazione di esportazione, mentre quella che acquisterà il prodotto dovrà fare una dichiarazione di importazione. Se si tratta di prodotti alimentari o animali vivi, devono essere aggiunte dichiarazioni sanitarie o fitosanitarie. È anche per questo che secondo alcuni economisti il Regno Unito potrebbe perdere quattro punti di Pil nei prossimi 15 anni.

Dal punto di vista di Bruxelles, il divorzio non stravolge la tenuta del mercato unico che l’Europa non intendeva barattare a nessun costo, ma la priva della City e soprattutto di un grande paese che culturalmente le appartiene (l’uscita dal progetto Erasmus in tal senso è un grave errore) soprattutto in una fase nella quale è necessario mantenere un ruolo chiave a livello macroregionale nel risiko globale, dove la scena appare sempre più dominata dalla Cina, unico paese tra le grandi economie che nel 2020 segnerà un incremento del Pil.

Se non altro l’intesa, che dovrà ora essere fatta propria dai 27 membri comunitari e dal Parlamento europeo, evita un salto nel buio a cavallo dell’anno e il disastro che sarebbe scaturito in caso di nessun accordo.

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