Mario Draghi è di destra o di sinistra?

Il paradosso della Dragonomics. In una fase nella quale la maggior parte dei paesi scelgono di rivalutare l’importanza delle politiche pubbliche, l’Italia sceglie un premier che certamente non è keynesiano. E che ora è chiamato a superare se stesso.

Draghi è di destra o di sinistra?

La pandemia ha ricordato a tutto il mondo quanto siano importanti le politiche pubbliche. E che il mercato (in senso smithiano) non è certo in grado di risolvere i cosiddetti ‘fallimenti (appunto) del mercato’. Le principali economie hanno capito che investire nella sanità, nell’istruzione, nei beni pubblici in generale è dirimente se si vuole guardare a un mondo meno disuguale e più sostenibile, in tutti i sensi.

Ecco allora che Draghi per avere successo è ora chiamato in qualche modo a superare se stesso. Lui che keynesiano non è mai stato durante la vita professionale (nonostante si sia laureato con il ‘seguace’ di Keynes Federico Caffè). Semmai neoclassico (che con qualche forzatura si potrebbe tradurre nel gergo politico di centro-destra), ovvero a favore di un basso intervento dello stato nell'economia.

Ma, dopo aver salvato l’Euro (quando il fallimento della Grecia sembrava suggerire la fine dell’Ue) ed esser riuscito a convincere l’ostica Germania sul quantitative easing (che tuttavia è servito più che altro ad aiutare le banche e meno l’economia reale), l’ex governatore della Bce non potrà non tenere conto delle contraddizioni lampanti messe in evidenza dalla pandemia, che in qualche modo ha segnato la rivincita delle teorie neokeynesiane dopo anni di smantellamento dell’intervento pubblico nell’economia, di cui lo stesso Draghi si è reso protagonista nel decennio passato alla Direzione del Tesoro quando si diede avvio alla ‘storica’ campagna di privatizzazioni.

In questo quadro, sono almeno due le cose che l’ex banchiere e governatore della Bce riuscirà a fare bene: ridurre lo spread (i mercati sono certamente rassicurati dalla presenza di Draghi; sanno che lo cose verranno fatte ma senza rivoluzioni) e presentare un Recovery Plan realistico e dignitoso.

Ma la vera scommessa è un’altra: riuscirà Draghi ad avere una visione di politica economica di lungo periodo? Metterà ad esempio mano alla questione salariale e alzerà il salario minimo (seguendo le orme di Biden)? Come si distribuiranno sull’intera popolazione italiana l’effetto delle politiche che il nuovo esecutivo deciderà di varare? E riuscirà a resistere alla tentazione di eliminare il reddito di cittadinanza? Con la fine del blocco dei licenziamenti, l’effetto di un’eventuale revisione della misura sarebbe devastante sui ceti meno abbienti. E si consideri che l’Italia era un’eccezione più unica che rara: praticamente tutti i paesi avanzati prevedono (da anni se non decenni) uno strumento universale di sostegno al reddito di ultima istanza.

Draghi dovrà dunque provare a disegnare una politica economica che sia davvero capace di ridurre la disuguaglianza e ad attaccare alcuni tra i principali problemi che attanagliano l’economia italiana. Gli obiettivi di essere rispettato dal gotha internazionale e di riuscire a far crescere di più l’Italia (dal punto di vista economico) sono alla sua portata, ma dovrà dimostrare di essere capace di conciliare tutto ciò con una maggiore inclusività, magari rispolverando quel ‘whatever it takes’ che lo ha reso noto in tutto il mondo. Ma stavolta non solo a favore delle banche. Solo così il nostro paese sarà in grado di liberare le energie preziose che per ora restano incastrate nella rigida struttura della società italiana.

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