I salvataggi dell'Fmi funzionano ancora?

Il Fondo Monetario Internazionale è considerato il prestatore di ultima istanza per i paesi in difficoltà finanziaria. Ma la medicina proposta è ritenuta da molti troppo amara

Salvataggi dell’Fmi, funzionano ancora?

In seguito alle devastazioni causate dalla seconda guerra mondiale, il Fondo monetario internazionale fu istituito per consentire ai paesi in grave difficoltà di prendere a prestito denaro. La speranza era che ciò avrebbe creato stabilità finanziaria, favorito la cooperazione globale, agevolato il commercio e la crescita, nonché ridotto la povertà.

Ora, più di 74 anni dopo, il dibattito sui metodi usati dall’Fmi è più forte che mai. I sostenitori dei programmi di salvataggio sostengono che la liquidità fornita e le riforme richieste consentono ai paesi di non tracollare. Ma gli oppositori ritengono che la ricetta del Fondo prevede ingredienti indigesti per la popolazione e rende i paesi in difficoltà ancor più dipendenti dagli aiuti del Fondo.

La strategia dell’Fmi è cambiata dagli anni ’90, quando in risposta alla crisi finanziaria dell'America latina, ha attuato quello che è diventato noto come "Washington Consensus", che richiede riforme strutturali neo-liberiste (taglio della spesa pubblica, privatizzazioni dei beni pubblici, aumento delle tasse, deregolamentazione del mercato del lavoro, tassi di cambio flessibili) in cambio di un aiuto finanziario immediato.

Le politiche previste dal Consenso di Washington sono così diventate pilastri delle condizioni di salvataggio imposte non solo dal Fondo, ma anche dalla sua progenie a Washington, la Banca Mondiale. Joseph Stiglitz, capo economista presso la World Bank tra il 1997 e il 2000, nutriva seri dubbi sulla fattibilità della nuova dottrina. Secondo il premio Nobel per l’economia, “sebbene il Fondo sia finanziato con i soldi dei contribuenti, non cura di fatto i loro interessi".

Nel 1995, il Messico fu acclamato come un brillante esempio della nuova politica dell'Fmi, poiché il paese aveva ricevuto e rimborsato un pacchetto di salvataggio da 45 miliardi di euro. Ma pochi anni dopo il fallimento è diventato evidente. I messicani hanno subito un forte calo del reddito pro-capite reale, tornato nel 1998 ai livelli del 1974.

C’è, poi, sotto gli occhi di tutti il caso della Grecia. Nonostante tre salvataggi per un totale di 298 miliardi di euro, la disoccupazione nel paese resta ostinatamente alta (22,5%). Il salario minimo è sceso da 863 euro a 684, mentre la spesa sanitaria pubblica si è quasi dimezzata. Ma i creditori (Fmi ed Ue) continuano a chiedere ad Atene di spendere meno di quanto guadagna al fine di creare le eccedenze necessarie per ripagare il debito. Il paradosso è che la Grecia è uscita ad agosto dal piano di aiuti con un debito superiore a quello registrato prima dell’intervento del Fondo. E il piano di ammortamento prevede delle performance macroeconomiche che per l’economia ellenica sarà semplicemente impossibile raggiungere.

Il caso più recente è quello dell’Argentina. Anche qui il Fondo ha redatto la diagnosi di sempre e prescritto la solita cura da cavallo. C’è, infine, la Turchia che rifiuta l’intervento dell’Fmi, pur essendo in grave difficoltà. 

È forse giunto il momento di rivedere le politiche dell’Fmi?

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