Il coronavirus terrorizza, il ‘climate change’ no: ecco come nasce la percezione del rischio

Analisi delle dinamiche con cui si innesca una mobilitazione globale

Il coronavirus terrorizza, il clima no: perché?

Con le prime vittime italiane del coronavirus anche nel nostro Paese è scoppiata la fobia. A livello globale la comunità medico-scientifica lavora per trovare una cura, l’Fmi ha rivisto al ribasso le stime di crescita, ed è partita una mobilitazione che ha pochi precedenti nella storia. Tutto questo a fronte di un bilancio che non arriva a 3 mila morti.

Eppure, secondo il Climate Index Risk, negli ultimi 20 anni i fenomeni meteorologici estremi aggravati dal cambiamento climatico hanno causato 500 mila vittime nel mondo. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è la causa di circa 80 mila decessi l’anno. E i ricercatori dell’Ipcc calcolano che entro il 2100 le perdite economiche dovute all’emergenza climatica oscilleranno tra gli 8,1 e i 15 trilioni di dollari. Dunque, lo scenario è apocalittico, ma per scongiurare la catastrofe ambientale non c’è una reazione altrettanto forte. Perché?

“Per dare una risposta bisogna analizzare le dinamiche con cui avviene la costruzione sociale del rischio - spiega Giovanni Carrosio, sociologo dell’Ambiente presso l’università di Trieste -. Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone. Razionalmente tutti sappiamo che volare è più sicuro che guidare, ma abbiamo più paura di prendere il volo che di sederci al volante”.

Per Marco Bagliani, docente di cambiamento climatico, strumenti e politiche all’università di Torino, “il parallelismo tra coronavirus e crisi climatica chiama in causa la psicologia dei disastri”. Particolare importanza assumono tempi, spazi e ricadute sociali. “L’epidemia del coronavirus si sviluppa su una scala temporale breve e rispetta i tempi tipici dell’attenzione, mentre il cambiamento climatico varia su una scala temporale più lunga. Parlando di spazi, l’epidemia ha una sua collocazione: le città, gli ospedali, una nave in quarantena, mentre la crisi del nostro pianeta non si sviluppa per forza sotto i nostri occhi”. Infine le ricadute sulla vita delle persone: “Mettersi in gioco per fermare il virus prevede un sacrificio a breve termine (limitare i viaggi, indossare le mascherine), provare a contrastare il cambiamento climatico invece significa rivedere gli stili di vita per sempre”.

Quindi? “Forse il metodo migliore è arrivare a una sintesi – spiega Luca Iacoboni, responsabile Clima ed Energia di Greenpeace -. Per indurre all’azione bisogna dire che c’è speranza e contemporaneamente essere determinati nel pretendere azioni concrete”. 

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