
A Porto Velho (Rondônia) e Lábrea (Amazonas), ci troviamo in Brasile, l’aria è contaminata da livelli di particolato tossico superiori a quelli di megalopoli come San Paolo, Pechino e Londra. Lo rivela un nuovo report di Greenpeace International, che punta il dito contro l’espansione dei pascoli: secondo i dati di MapBiomas, oltre il 90% delle aree deforestate è destinato all’allevamento, e tre quarti delle aree bruciate nel 2025 si trovano entro 50 km da Porto Velho.
Pascoli al posto della foresta
Gli incendi non sono eventi naturali, ma appiccati per liberare terreni forestali da destinare al bestiame. Oltre 30 milioni di ettari, un’area grande quanto l’Italia, sono stati bruciati nel raggio di 360 km dagli stabilimenti di JBS, il più grande produttore di carne al mondo. L’azienda respinge le accuse, ma Greenpeace sottolinea come i roghi continuino a seguire la crescita dell’industria della carne, nonostante la legge brasiliana vieti severamente la combustione non autorizzata per fini agricoli.
Inquinamento da record: l’Amazzonia peggio di Pechino
Nel 2024, le concentrazioni di pm 2.5 a Porto Velho e Lábrea hanno superato di oltre 20 volte i limiti dell’Oms, con picchi giornalieri sopra i 300 microgrammi per metro cubo. Anche nel 2025, nonostante un calo degli incendi, i livelli restano fino a sei volte oltre le soglie di sicurezza.
Secondo l’Air Quality Life Index dell’Università di Chicago, Porto Velho registra valori medi di pm 2.5 più alti di Pechino, Santiago e San Paolo, pur avendo poche industrie. Un paradosso: la foresta tropicale più grande del mondo è oggi una delle aree più inquinate del pianeta.
Un disastro sanitario annunciato
Il fumo dei roghi è la principale causa di quasi 50mila ricoveri l’anno in Brasile. Nei periodi di massima emergenza, gli ospedali di Porto Velho registrano un aumento esponenziale di casi respiratori, soprattutto tra bambini e anziani.
L’agribusiness, motore della deforestazione
Il Brasile è tra i principali esportatori di carne bovina al mondo: nel 2024 ha generato 12,8 miliardi di dollari di ricavi, con un aumento del 27% delle esportazioni rispetto all’anno precedente. Greenpeace e altre ong denunciano l’assenza di controlli efficaci sulle filiere e la connessione diretta tra i roghi e la produzione di carne destinata ai mercati internazionali: l’Amazzonia non può continuare a pagare il prezzo di un sistema che distrugge la foresta per alimentare un modello economico insostenibile.










