I proletari dell’Everest

Diseconomia del turismo estremo

I proletari dell’Everest

La mattina del 24 ottobre 2010 Chhewang Nima, uno sherpa di 43 anni con una lunga esperienza di scalate, cominciò la faticosa salita del Baruntse, una ripida vetta vicino all’Everest, nel Nepal orientale, alto poco più di settemila metri: non è una delle cime che attirano le grandi spedizioni mondiali, ma è comunque una tappa popolare.

Legato a Chhewang (che partecipava a quella missione in cambio di mille dollari) c’era un altro sherpa, Nima Gyalzen. L’unica cliente era Melissa Arnot, ventisei anni, una guida alpina di Sun Valley, nell’Idaho. Quel giorno i due sherpa stavano aprendo la strada e sistemando le corde che Arnot, gli iraniani e varie altre squadre che si trovavano più in basso avrebbero usato per raggiungere la cima.

Melissa Arnot era nel campo alto. Aveva deciso di raggiungerli il giorno dopo per dare agli sherpa il tempo di lavorare. La neve era alta ma - ha raccontato Arnot - “avevo visto che loro si muovevano rapidamente e avevo pensato che forse erano arrivati fino in cima”. Intorno alle 14, a soli 180 metri dalla vetta, Chhewang stava piantando un picchetto nel ghiaccio quando sotto di lui il suolo si aprì come una catasta di legna e cedette. In quel momento si trovava in piedi su una cornice, una fragile formazione di neve indurita dal vento che dal crinale si protende nel vuoto. Senza neppure avere il tempo di reagire, Chhewang Nima scomparve.

Stando al racconto di Nima Gyalzen, alcuni blocchi di ghiaccio, cadendo, avevano tranciato la corda facendo precipitare Chhewang e, con tutta probabilità, evitando a Nima di essere a sua volta trascinato nel precipizio.

Per via del loro lavoro, che consiste nel sistemare le corde, fare avanti e indietro portando provviste, e accompagnare i clienti che pagano per raggiungere la cima dell’Everest e di decine di altre vette himalayane, gli sherpa sono esposti ai pericoli più grandi che la montagna presenta: caduta di massi, crepacci, assideramento, sfinimento, trombi e ictus.

Stando all’Himalayan database, che tiene traccia di questi incidenti, sulle montagne del Nepal sono morti lavorando 174 sherpa, di cui quindici sull’Everest negli ultimi quindici anni. Nello stesso periodo, almeno altrettanti sherpa sono rimasti invalidi in seguito alla caduta di massi, all’assideramento e a malattie da altitudine come ictus ed edema.

Uno sherpa che lavora al di sopra del campo base dell’Everest ha dieci volte più probabilità di morire rispetto a un pescatore statunitense – che secondo i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie è il mestiere più pericoloso in America in ambito civile – e oltre 3,5 probabilità in più di morire rispetto a un soldato statunitense nei primi quattro anni della guerra in Iraq.

Come rischi messi in conto da chi paga per raggiungere la vetta, i pericoli della scalata possono avere un senso. Ma come dato statistico relativo alla sicurezza sul posto di lavoro, un tasso di mortalità dell’1,2 per cento è scandaloso. Al mondo non esiste un’altra industria che con tale frequenza uccide e procura menomazioni ai suoi lavoratori per offrire un servizio ai clienti.

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