
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno riacceso i motori del fossile. Trivellazioni in crescita e nuovi giacimenti stanno proiettando Washington verso la leadership mondiale nell’export di petrolio, favorita dal vuoto lasciato dall’embargo europeo su gas e greggio russi.
Intese con l’Africa e corsa al primato in Europa
Gli Usa puntano dritto al mercato europeo, già diventato il loro principale cliente. Dal 2019 la produzione è passata da 17,2 a 20,7 milioni di barili al giorno, con un export in salita da 2,3 a 3,3 milioni. In parallelo, Nigeria, Algeria e soprattutto Libia guadagnano terreno: Tripoli è oggi il primo fornitore dell’Italia con oltre il 24% del nostro import.
Il greggio americano non convince le raffinerie europee
C’è però un ostacolo tecnico. Il petrolio statunitense è più leggero e adatto alla produzione di benzina e nafta, mentre le raffinerie europee sono progettate per lavorare greggi “pesanti” russi, africani e mediorientali, più idonei a produrre gasolio. Il rischio? Che l’oro nero americano non possa diventare l’unico pilastro dell’approvvigionamento Ue.
Prezzi e logistica: il conto rischia di salire
Il greggio Usa è quotato al Wti di New York, mentre quello africano e mediorientale al Brent di Londra. Se a questo si aggiunge il costo extra di trasporto – circa 4-5 dollari al barile – l’Europa rischia di pagare di più, alimentando ulteriormente l’inflazione energetica.
La Russia cambia rotta, non mercato
Nonostante sanzioni ed embargo, Mosca non ha ridotto l’export: ha solo cambiato direzione. Oggi India e Cina assorbono il 90% del greggio russo, approfittando di prezzi scontati fino a 40-50 dollari al barile. Anche la Turchia, membro Nato, continua ad acquistare petrolio da Mosca.