Per sfamare il mondo non serve l’industria alimentare

Il problema alimentare di oggi non è la scarsità di cibo in senso assoluto. È piuttosto una questione di distribuzione e consumo. La soluzione è nei piccoli produttori

Per sfamare il mondo non serve l’industria alimentare
Vietnam

Forse confuso dalla cupa previsione dell'economista britannico Thomas Malthus nel 1798, il mondo si è messo a produrre cibo. Ora la quantità complessiva è così elevata che sarebbe sufficiente per sfamare la popolazione globale, che nel frattempo è aumentata di quasi dieci volte. Secondo il malthusianesimo, la pressione demografica sarebbe la causa principale della diffusione della povertà nel mondo. In altri termini, tutto dipenderebbe dal rapporto tra popolazione e risorse diponibili sulla Terra. Invece, oggi sappiamo che il problema alimentare non è connesso alla scarsità di cibo in senso assoluto: piuttosto è distribuito in modo ineguale e consumato talvolta irrazionalmente.

Il mix di questi fattori ha originato due problemi paradossali: le persone più svantaggiate del mondo muoiono o soffrono di menomazioni cognitive a causa della sottonutrizione, mentre altre affrontano rischiano persino la morte a causa dell'obesità. Ecco allora che il punto debole è il modello attuale di produzione e distribuzione alimentare: il consumo di cibo in tutto il mondo sta diventando meno sano e sostenibile, a causa del marketing aggressivo e della fornitura per tutto l'anno di colture un tempo stagionali o semplicemente troppo lontane.

Il predominio delle multinazionali "Big Food" è stato favorito dal diffondersi dell’idea che solo attraverso l'agricoltura industriale sia possibile sfamare il mondo e soddisfare la crescente domanda. Questo dogma, a propria volta, ha indotto l’uso eccessivo di sostanze chimiche nella produzione alimentare. Tali pratiche danneggiano l'ambiente, riducono la qualità del suolo e rendono le colture più vulnerabili ai parassiti. La sfida è rendere la produzione più sostenibile e adottare diete più sane. Può sembrare inutile tentare di farlo, perché i consumatori di tutto il mondo sono ormai abituati agli alimenti più economici prodotti dalle industrie globali.

Il punto è che la maggior parte della produzione mondiale, circa il 70%, proviene non dalle cosiddette economie avanzate, bensì da milioni di piccoli agricoltori localizzati perlopiù nei paesi in via di sviluppo. Ciò significa che il mondo non ha bisogno di una nuova rivoluzione tecnologica in agricoltura per produrre cibo in modo sostenibile e redditizio.

In Malawi, ad esempio, oltre un decennio fa il paese ha cercato di aumentare la produzione di mais incentivando l’acquisto di semi e fertilizzanti chimici. Nella prima fase i rendimenti sono aumentati drasticamente, a tal punto che si è cominciato a parlare di un "Miracolo Malawi". Ma questo successo ha favorito il passaggio a una monocoltura (mais), che ha finito per rendere il suolo più acido e meno fertile. Poi, il cambio di rotta: gruppi di piccoli agricoltori hanno iniziato a coltivare una varietà locale di mais più nutriente. Non acquistano più semi dalle multinazionali e limitano il ricorso ai fertilizzanti chimici. E stanno reintroducendo anche altre colture.

L’esperienza del piccolo Stato africano aiuta a comprendere che la risposta al moderno problema alimentare globale non è poi così complicata: basterebbe allentare la presa delle grandi corporation sulle tre fasi (produzione, distribuzione e consumo) e dare ai piccoli agricoltori la possibilità di produrre in modo sostenibile. Ma è piu facile a dirsi che a farsi. Infatti gli interessi agroindustriali sono così potenti da esser riusciti, fino ad ora, a impedire che tale rivoluzione si radichi.

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su LA STAMPA

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