Le banche centrali in preda alla ‘sindrome Argentina’

Il caso del Giappone e della sua politica monetaria ultra espansiva. Ma lo yen è la valuta meno performante quest’anno tra le principali economie avanzate

Le banche centrali in preda alla ‘sindrome Argentina’

A poche ore dal terzo rialzo consecutivo dei tassi di interesse statunitensi da 75 punti base, le banche centrali europee hanno seguito le orme americane. Quelle britannica e norvegese hanno alzato i tassi di mezzo punto, portandoli al 2,25%. E con il rialzo in Svizzera si chiude l’era dei tassi negativi nel Vecchio Continente.

Sulla scia statunitense si sono posizionate anche alcune economie asiatiche (Indonesia, Taiwan, Filippine) e il Sud Africa allo scopo di evitare una fuga di capitali e un’eccessiva svalutazione delle loro valute. Complessivamente nel 2022, le 23 principali banche centrali del mondo hanno alzato i loro tassi più di 90 volte. Ma la tendenza non riguarda tutti.

In Giappone, dove è stato registrato ad agosto un tasso di inflazione al 3%, la banca centrale ha deciso di mantenere la sua politica di tassi di interesse ultra-bassi che ha, tuttavia, contributo a fare dello yen la valuta meno performante nel 2022 considerando le principali economie avanzate. Il valore della divisa della terza economia al mondo è crollato del 20% rispetto al dollaro, ai minimi degli ultimi 24 anni.

A dispetto della decisione nipponica, come detto, numerose banche centrali stanno invece agendo con una serie inedita di aumenti consecutivi per contenere l’aumento dell’inflazione nell’economia rispetto al passato. La cosiddetta ‘sindrome Argentina’ che costringe la sua banca centrale ad aumenti dei tassi come quello della scorsa settimana: 550 punti, ovvero ben 7 volte l’ultimo aumento della Fed.

Due tipi di rischi si profilano all’orizzonte. Primo: l’aumento dei tassi servirà davvero a frenare l’aumento dell’inflazione? Anche in Europa dove i prezzi al consumo sono saliti a causa della riduzione dell’offerta e non, classicamente, da un surriscaldamento della domanda? Secondo: anche qualora la ricetta funzionasse, gli strumenti di politica monetaria non hanno un effetto immediato. Osservando, ad esempio, l’andamento dei tassi di inflazione americani degli ultimi 100 anni, mediamente passano 16 mesi prima che una politica monetaria restrittiva riporti i livelli dei prezzi dal loro picco al 2%.

Il problema è quindi che gli aumenti attuali si dimostrino a posteriori più ampi di quanto fosse necessario per abbattere i prezzi. Nel frattempo, la crescita globale tende alla recessione.

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